Prima
R2/
LA CULTURA
ELIZABETH STROUT
Voglio aiutare i lettori a svelare i sentimenti che tengono nascosti
DICEVA Franz Kafka: «Un libro deve essere una scure per il mare ghiacciato dentro di noi». Credo che la prima domanda che bisognerebbe porsi è la seguente: perché mai abbiamo mari ghiacciati dentro di noi? Ci sono molte ragioni e secondo me hanno tutte a che vedere con la falsità. Le menzogne che ci sono dette. Le menzogne alle quali crediamo. E il linguaggio ingannevole usato per raccontare l’esperienza umana. Questa corruzione del linguaggio ci fa diventare, una volta arrivati all’età adulta, persone disorientate e semicoscienti, forse sensibili, ma non per questo particolarmente consapevoli. A New York ho vissuto per un certo periodo in un palazzo e sul mio stesso pianerottolo abitava una giovane madre con tre figli maschi. Il giorno del compleanno del bambino più piccolo gli hanno organizzato una festa.
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ELIZABETH STROUT |
diciamo «odio mio fratello» ci dicono: non è vero che odi tuo fratello, tu gli vuoi bene. Invece, in quel momento preciso, con il trasporto genuino che è tipico dei bambini, di fatto noi proviamo odio puro per nostro fratello. Intendiamoci: non sto parlando di come si allevano i bambini. Sto parlando di parole, di linguaggio e di quello che apprendiamo a fare di esso.
Lentamente i bambini capiscono che il linguaggio che ascoltano — e utilizzano — non è rappresentativo di ciò che vivono. Spesso ho pensato che queste emozioni sono sradicate da noi a martellate dall’uso improprio del linguaggio, da adulti ben intenzionati, al punto che quando diventiamo adulti noi stessi non sappiamo nemmeno più che cosa proviamo.
E così, dentro di noi abbiamo questo mare di ghiaccio. Possiamo addirittura non saperlo. Tuttavia, il lavoro di uno scrittore di fiction è quello di restituirci quello stato iniziale, di dirci quelle cose che non si suppone che si debbano dire, di aiutarci a tornare alle emozioni più primitive e assolute che abbiamo vissuto da bambini. Uno scrittore deve scavare in quei sentimenti che vorremmo non avere. La maggior parte di noi ci prova, ci prova duramente e in modo mirabile a vivere in maniera dignitosa, e così dovrebbe essere. Invece abbiamo sentimenti diversi e uno scrittore deve restituirceli e restituirci a essi, in modo veritiero. In quale altro modo un lettore troverà ciò di cui ha bisogno, quando prende in mano un libro?
E di cosa si ha bisogno, quando si prende in mano un libro? Si ha bisogno di qualcosa di sincero, di qualcosa che rammenti, che insegni di nuovo, così da tornare a sapere che cosa si prova davvero. E oltre a ciò si ha bisogno di aiuto per comprendere che cosa si prova a essere un’altra persona. Senza questo, la nostra empatia si appiattirebbe, o non esisterebbe. Non è necessario guardare lontano per rendersi conto di ciò che accade in questo mondo, quando la nostra capacità di essere empatici scompare. Per noi sarebbe facile restare belli comodi all’interno del nostro punto di vista individuale. Ci è familiare. È il nostro. È noi. Ma questo significa non doversi assumere la responsabilità degli altri, perché gli altri non sono del tutto reali per noi.
Questo è il motivo per il quale, quando ho scritto I ragazzi Burgess, mi sono occorsi sette anni per portare a termine le ricerche sulla popolazione somala negli Stati Uniti — così che quella popolazione non rimanesse “al- tra”. Dovevo fare in modo che il personaggio di Abdikarim risultasse quanto più veritiero e autentico possibile. La mia speranza è che quando voi, lettori, leggerete Mi chiamo Lucy Barton riusciate a capire che cosa vuol dire essere poveri come è stata lei da bambina, riusciate a provare compassione per Lucy, ascoltiate le sue osservazioni sul mondo, e siate d’accordo con esse o anche in disaccordo ma in ogni caso coinvolti. Quando un lettore mi dice «dopo aver letto di Olive Kitteridge capisco meglio mia suocera», sono contenta. Talvolta parlano di “mia madre”. E spesso i lettori mi dicono — con orgoglio — «sono Olive». Ciò mi rende felice. Sento di aver fatto il mio lavoro.
Ho aiutato a rompere quel mare di ghiaccio dentro di noi. Ho scritto di una donna che non si è comportata sempre bene, in passato, proprio come noi tutti non ci comportiamo sempre bene. Ho scritto di una donna che ha pensieri che a quanto sembra sono condivisi da molte persone. E a questo punto vorrei aggiungere che — per me — una delle gioie della scrittura è che quando scrivo non giudico i miei personaggi. Altri li giudicheranno, forse, e sta bene. Ma i miei personaggi sono completamente liberi dal mio giudizio. Lascio che si comportino male quanto vogliono, e che siano ciò che sono. Lascio che si amino, in modo imperfetto, come noi tutti amiamo in modo imperfetto. A me interessa soltanto raccontare tutti i livelli diversi ai quali vivono le persone, perché noi viviamo tutti a livelli diversi. Non mi interessa il bene o il male, materia del melodramma. Ciò che mi sta a cuore sono le innumerevoli grinze che abbiamo dentro, le pieghe della nostra anima. A me interessa far sì che capiamo chi siamo. Così facendo, la mia speranza è che, per tutto il tempo in cui il lettore si trova nel mondo dei miei libri, magari non si senta così solo.
Io sono come Lucy Barton. Lei dice: scriverò e così la gente non si sentirà sola! Anch’io voglio farlo. Ma voglio spingermi oltre Lucy. Io voglio aiutare le persone a capire un po’ meglio le loro madri e i loro padri o i loro vicini di casa o le persone dalla pelle di colore diverso o di religione diversa. Voglio dare al lettore — fosse pure per un istante — una prospettiva più ampia del mondo, così che possa sentirsi più grande e non più piccolo, come così tante persone tendono a fare.
Quando mia figlia era bambina, amava tantissimo i suoi pupazzi di peluche. Un giorno mi ha accompagnato in camera sua tenendomi per mano con la sua manina umida. Aveva allineato tutti i suoi peluche in fila. Mi ha guardato con orgoglio e mi ha detto: «Questi sono i miei amici ».
Ho ripensato spesso a quelle sue parole. Esprimono ciò che io sento nei confronti della maggior parte dei libri di casa mia, di tutti i personaggi inventati che mi hanno osservata nelle varie fasi della mia vita. Spero che anche voi proverete ciò nei riguardi di Lucy Barton e Bob Burgess e Olive ed Henry Kitteridge, personaggi inventati che, come i peluche di mia figlia, in qualche occasione per noi sono più reali di coloro accanto ai quali camminiamo. Sono personaggi che ci perdonano mentre noi perdoniamo loro.
Questi sono i nostri amici. Noi abbiamo bisogno di loro, perché la vita, in qualche caso, comporta grande solitudine. Ma va bene così, è la vita. E noi abbiamo i nostri amici.
Traduzione di Anna Bissanti © Elizabeth Strout 2016
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Abbiamo emozioni diverse e un autore deve restituircele in modo veritiero e sincero Kafka diceva che “un libro deve essere una scure per il mare ghiacciato dentro di noi” La gioia di un romanzo è quella di descrivere personaggi senza doverli giudicare
LE IMMAGINI
La liseuse,
dipinto di Henri Lebasque ( 1856- 1937) Sotto, un ritratto fotografico di Elizabeth Strout