DOMENICALE
«I contatti degli americani con i propri connazionali che vanno in guerra spesso sono nulli. Non solo io, per esempio, non ne conosco nessuno, ma le persone che frequento non conoscono a propria volta nessuno di quelli che sono partiti in guerra in questi anni. Sono guerre lontane. Sono guerre aliene. Aiutano a comporre delle statistiche, ma non ci toccano da vicino. Io personalmente farei di tutto per non partire in guerra, però mi dico anche che sarebbe meglio se ci fosse ancora l’arruolamento obbligatorio. Non c’è nulla di più antidemocratico del modo in cui funziona il nostro esercito. Con l’arruolamento obbligatorio, nelle guerre che facciamo sarebbero coinvolti tutti i ceti e le classi sociali, saremmo coinvolti noi, di conseguenza i nostri figli, i nostri coniugi, i compagni di vita, gli amici, tutta l’opinione pubblica si sentirebbe partecipe. È questa mancanza di partecipazione che fa paura. Quando non c’è un forte coinvolgimento emotivo a livello di opinione pubblica, per un paese diventa molto più facile andare in guerra».
In questi anni ci sono stati altri cambiamenti importanti. Penso a come si è allargata la forbice tra ricchi e poveri, alla crisi economica, al crollo della classe media. Letteratura e cinema americani del Novecento sono pieni di storie sul fare fortuna, sul riscattarsi socialmente e economicamente. Il fatto di vivere in un mondo in cui quest’ascesa è più difficile incide su chi racconta storie? John Steinbeck è più attuale di Saul Bellow?
«Se è vero che la letteratura da noi ha trascurato le disuguaglianze sociali, ha però concentrato la sua attenzione sugli effetti delle migrazioni. A un certo punto c’è stato un interesse quasi feticistico verso le minoranze. Romanzi e racconti sono riusciti a dare voce agli ispanici, agli indiani, agli afroamericani, agli ebrei... Se c’è un posto dove tutte queste identità possono avere spazio, be’, è proprio la letteratura americana contemporanea. La nostra letteratura sta favorendo molto questo tipo di conversazione culturale. La politica non sempre ne è capace ».
Un altro tema su cui il dibattito culturale degli ultimi anni mi sembra stia cambiando è quello delle religioni. In “Eccomi” racconti la vita di una famiglia di ebrei piuttosto laici che hanno a che fare con la religione. Che ne pensi del rapporto tra religione e letteratura?
«I personaggi di Eccomi non sentono il bisogno di affrancarsi dalla religione. Semmai hanno l’esigenza di stringere un nuovo legame con questo tipo di tradizione. Nonostante riconoscano l’ipocrisia di alcuni riti e convenzioni, il sentimento religioso è qualcosa di cui desiderano riappropriarsi. In realtà vorrebbero anche individuare la religione che più si addice a ciascuno di loro. Da una parte c’è la religione organizzata, il mondo dei rabbini e dei bar mitzvah. Poi c’è questa sorta di religione coniugale tra Jacob e Julia, una religione fatta di piccoli riti che conoscono solo loro, convinti che sia il modo per mantenere vivo un amore che all’inizio aveva tante ambizioni, e che ora rischia di disfarsi. E poi, ancora, c’è quella che potremmo definire religione del rispetto. C’è la scena in cui Jacob porta suo figlio Benji in un osservatorio astronomico, e quest’ultimo gli chiede: “perché quando la gente guarda le stelle tende a parlare a bassa voce?”. Qui, subentra la religione del rispetto. L’umiltà. Il senso di essere piccoli. Spesso la religione ci rimette in contatto con un senso delle proporzioni che smarriamo quando siamo troppo concentrati sulla nostra vita privata».
Sia a livello cinematografico che a livello letterario, uno dei dialoghi più fecondi a cui abbiamo assistito nel Novecento è quello tra Europa e Stati Uniti. Spesso sono stati eventi tragici (come guerre o migrazioni) a farci dialogare anche sul piano artistico. Mi chiedo se oggi questo confronto sia ancora così vivo. A me pare di no, e mi dispiace, perché credo che entrambe le culture possano trarre forza da una reciproca frequentazione.
«Parlammo della stessa cosa nel 2005, quando venni a Venezia per tenere una conferenza alla Scuola Librai. Però le cose da allora mi sembrano cambiate. Dieci anni fa avevo l’impressione che la cultura americana si stesse un chiudendo un po’ troppo. Certo, se guardiamo ai libri di autori europei pubblicati negli Stati Uniti, e ai libri di autori statunitensi pubblicati in Europa, la sproporzione ancora oggi è enorme. Soltanto il tre per cento dei libri pubblicati negli Stati Uniti è in traduzione. Però io mi ritrovo non di rado a scrivere a Berlino, a Tel Aviv, o in Spagna, e spero di poterlo continuare a fare in futuro. Al tempo stesso, quando sono a New York, mi capita di incontrare scrittori europei che si trovano lì per lavoro. Diciamo che a livello di frequentazione intellettuale il dialogo continua ».
E a livello di cultura di massa?
«In quel caso molto meno. Ma anche la cultura popolare da noi si sta aprendo un po’ di più. Le traduzioni di autori stranieri aumentano. Lentamente, ma aumentano. Accade persino con la tv. Ci sono format televisivi che vengono presi dall’estero e poi adattati alle nostre esigenze. Parlavamo prima di umiltà. Gli Stati Uniti per antonomasia non sono un popolo umile, ma questo tipo di atteggiamento ha raggiunto i suoi massimi livelli con l’era di George W. Bush. Soprattutto dopo l’11 settembre — e qui torniamo al nostro tema — la chiusura ha dato il meglio di sé. È ciò che vorrebbe tornare a fare quella parte di America che sta con Donald Trump. Barack Obama, al contrario, è stato un presidente assolutamente cosmopolita, il che ha avuto effetti anche sul piano della ricezione culturale. Le due cose sono collegate. E forse è anche per questo che oggi, tutto sommato, ho la sensazione che siamo più aperti rispetto a quindici anni fa».
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NICOLA LAGIOIA
NEI ROMANZI DI JONATHAN SAFRAN FOER, la Storia con la “S” maiuscola si intreccia puntualmente con le piccole vicende dei personaggi d’invenzione. Questo succede in Ogni cosa è illuminata, in Molto forte, incredibilmente vicino e ora in Eccomi.
Dagli attentati alle Twin Towers — che facevano da sfondo al suo secondo romanzo — sono passati esattamente quindici anni. Un evento che segna in maniera simbolica l’inizio del secolo. Se il Novecento era stato il “secolo breve” — cominciò nel ‘14 con lo scoppio della Prima guerra mondiale, finì in anticipo nell’’89 con il crollo del muro di Berlino — il Ventunesimo secolo è iniziato subito. Sarebbe interessante capire allora se e come l’11 settembre 2001, voltando pagina alla Storia, ha cambiato anche l’approccio di chi racconta storie, per esempio attraverso la letteratura e il cinema. Non mi riferisco solo alla narrazione dell’11 settembre in sé, ma alla percezione della realtà che quell’evento ci ha dato in eredità. Gli anni Novanta avevano celebrato il cosiddetto “sciopero degli eventi”, qualcuno aveva provato a convincerci che la Storia fosse finita, o che il suo lato più brutale si fosse preso una lunga pausa. Ci avevano detto che il futuro sarebbe stato all’insegna di pace, stabilità, prosperità, fratellanza, assenza di conflitti. Insomma, ci stavamo forse preparando in modo del tutto irrealistico a raccontare un mondo opulento, piacevolmente immobile.
Poi è arrivato l’11 settembre, il brusco risveglio...
«Mi ricordo di un giochino che facevo con mio fratello quando eravamo piccoli. Ci dicevamo: “che cosa staremo facendo, quanti anni avremo, chi saremo quando arriverà il Duemila? E come sarà il mondo allora?”. C’era un’ansia di attesa, per il Duemila, perché non era solo il cambio di secolo, ma addirittura di millennio. Era una data simbolicamente fortissima. Tutti ne parlavano. Da “come sarà il mondo?” si passò poi a dire “succederà qualcosa di eclatante?”
man mano che la data si avvicinava. C’era ad esempio la paura del millennium bug, il rischio che tutti i computer sarebbero collassati allo scoccare della fatidica data. Poi il Duemila arrivò, e non successe assolutamente nulla di eclatante. Tutti tirammo un sospiro di sollievo, ci convincemmo che la vita non era cambiata e non sarebbe cambiata un granché negli anni a venire. La vita è invece cambiata nel 2001. Molto, moltissimo. E drammaticamente. Sono stati fatti tanti lavori, anche artisticamente rilevanti, sull’onda dell’11 settembre, ma non necessariamente su quell’evento storico. Negli Stati Uniti si sono anzi scritti romanzi e girati film su temi completamente diversi: sulla schiavitù, sugli anni Sessanta, addirittura su Abramo Lincoln.
Questo potrebbe significare che c’è un’assenza forte sull’11 settembre. È più probabile tuttavia che registi e scrittori volessero parlare di quel tema, ma non in maniera diretta, che è comunque un modo lecito di interpretare artisticamente il tempo storico in cui si è immersi. C’è un’altra cosa però che mi colpisce moltissimo: il modo completamente diverso con cui Europa e Stati Uniti guardano agli scrittori rispetto a questi temi. Negli Stati Uniti è difficile che gli autori di romanzi vengano interpellati su questioni legate alla vita pubblica, o alla politica. Quando c’è stato il decennale dell’11 settembre ho ricevuto diverse telefonate di giornalisti italiani che mi chiedevano un commento sulla ricorrenza, e nemmeno una chiamata da un giornalista americano. Da noi è più facile che mi facciano domande sulla mia vita privata anziché sui temi toccati da un mio romanzo, soprattutto se si tratta di temi di interesse pubblico. Molti americani hanno con la letteratura un rapporto simile a quello degli spettatori davanti alla tv: la considerano una fonte di intrattenimento, pura evasione. Sono pochi quelli che si avvicinano al nostro lavoro con lo scopo di trovare una prospettiva diversa da cui guardare il mondo».
A proposito di televisione, l’11 settembre è stato il primo grande evento storico documentato dai moderni mezzi di comunicazione. Ciò che mi domando e ti domando è se questa iper-rappresentazione della realtà ci aiuti davvero a comprenderla meglio, o non sia un’abbuffata multimediale che ci allontana dal cuore del problema. Mi chiedo se, a maggior ragione, in un mondo dove la realtà è iper-rappresentata e suo malgrado iper-spettacolarizzata, il modo in cui l’arte prova a raccontarla non sia ancora più prezioso. Porto a esempio un altro evento storico che hai fatto entrare nei tuoi romanzi. Non abbiamo sms, selfie, tweet, dirette periscope o video amatoriali del bombardamento di Dresda. Ma anche se per assurdo li avessimo avuti, non credo che questo ci avvicinerebbe a quella tragedia più di quanto ci consente di fare Kurt Vonnegut grazie a un romanzo come “Mattatoio n.5”, dove Dresda viene raccontata addirittura attraverso la fantascienza.
«La tecnologia porta a due conseguenze principali. La prima è di creare un effetto traumatico. L’11 settembre non è stata la tragedia più grande dell’ultimo decennio, né in termini di vite perdute né in termini di sofferenza generata. Però è stato l’evento più traumatico a livello globale, e questo a causa delle immagini terrificanti a cui abbiamo potuto assistere. La parola “terrorismo” viene spesso utilizzata in modo improprio, viene strumentalizzata politicamente per parlare di altri temi, dall’immigrazione alla vendita delle armi. Non hai però un vero atto di terrorismo quando un lupo solitario entra in uno shopping mall e spara a due poliziotti. È un atto criminale, terribile, ma non terrorismo. Il terrorismo è strettamente legato alla percezione mediatica che se ne ha. L’11 settembre da questo punto di vista è stato un atto di vero terrorismo. Ha superato l’abilità di qualunque produtto- re cinematografico per l’impatto che le immagini hanno avuto sulla gente che le ha viste. La potenza delle tecnologie consiste proprio in questo: nella capacità di trasformare una tragedia in un trauma. La seconda conseguenza consiste nel colmare una tragedia con una valanga di informazioni. Il proliferare di immagini, di messaggi, di dati, a un certo punto causa una sorta di inflazione emotiva. In breve ci abituiamo all’orrore. Ma non sempre questa quantità di informazioni, crea una vera e propria compassione. La compassione nasce da un’altra cosa. Ed è qui che entra in scena la letteratura, il cinema. La compassione nasce soltanto se io ti racconto davvero qualcosa, la mia storia, i miei sogni, le mie idee. Ecco, se proprio dovessi immaginare una funzione sociale dello scrittore, allora sarebbe proprio quella di riuscire a ispirare compassione. Come diceva il grande poeta polacco Zbigniew Herbert “l’immaginazione è uno strumento della compassione” ».
Dopo l’11 settembre c’è stata la guerra in Afghanistan, la guerra in Iraq, la crisi libica, quella siriana, il fallimento di quasi tutte le primavere arabe, è nato lo Stato Islamico. Eppure non mi sembra che le guerre del Ventunesimo secolo vengano raccontate dal cinema o dalla letteratura come avveniva per quelle del Novecento. Potrebbe dipendere dal fatto che prima c’era la coscrizione obbligatoria: alcuni di quegli scrittori o di quei registi avevano fatto la guerra, o avevano amici e parenti che ci erano stati. Oggi la guerra la fanno i professionisti ed è più difficile entrare in contatto con loro. O è la gente che si interessa meno a certe cose?