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IL BAZOOKA SPARA A SALVE

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FERDINANDO GIUGLIANO
LA FRUSTATA, la scossa, il bazooka. Le metafore per descrivere le iniziative dei mesi scorsi per rilanciare la ripresa italiana ed europea non mancano. A latitare sono invece gli effetti di lungo periodo su crescita, prezzi e occupazione.
Il nuovo autunno dell’economia italiana non ha infatti dovuto attendere il cambio di stagione per cominciare. I dati di ieri sul mercato del lavoro segnano un calo degli occupati e un aumento degli inattivi, con peggioramenti significativi per i giovani. I prezzi continuano a scendere, dello 0,1 per cento rispetto a un anno fa, segno che l’Italia resta tecnicamente in deflazione. E se è probabile che, a seguito di alcune revisioni, la crescita nel secondo trimestre sarà più alta dello zero segnato ad agosto, la ripresa resta molto più flebile di quanto il governo avesse preventivato.
SEGUE A PAGINA 29
DOPO anni di austerità fiscale e politiche monetarie troppo timide, il governo di Matteo Renzi e la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi hanno provato a spingere la crescita. A Roma si è seguita la strada, piuttosto comoda, dei bonus fiscali. Agli 80 euro di sconto sulle tasse per oltre 10 milioni di lavoratori è seguita la decontribuzione per i neo-assunti — totale per chi ha trovato lavoro l’anno scorso, del 40 per cento nel 2016. A Francoforte, invece, sono state avviate massicce iniezioni di liquidità, tagliando i tassi d’interesse sui depositi sotto lo zero e annunciando acquisti di obbligazioni per oltre mille miliardi di euro.
Queste iniziative variano nella loro efficacia immediata: alcune, come la decontribuzione, sono servite a diffondere nel loro primo anno di esistenza i contratti a tempo indeterminato, come evidenziato da un paper di Paolo Sestito della Banca d’Italia. Altre, come gli 80 euro, hanno aiutato a spingere i consumi ma anche le importazioni, sollevando grossi dubbi sull’opportunità di destinare risorse così ingenti a una misura così poco mirata. Le politiche eterodosse della Bce hanno abbassato notevolmente il costo del credito per governi e imprese, ma sembrerebbero aver anche stimolato i prestiti ad aziende decotte, come testimonia un recente lavoro di Viral Acharya della New York University e colleghi.
Dopo un inizio relativamente promettente, l’impatto di queste misure si è però andato progressivamente riducendo, obbligando banchieri centrali e ministri a rivederle, a volte cambiando strada, altre raddoppiando i loro sforzi. L’impatto degli incentivi sull’occupazione sta scemando, tanto che il governo non è intenzionato a rinnovarli per l’anno prossimo. La Bce ha già più volte incrementato il suo stimolo monetario, e, con l’inflazione dell’eurozona ferma allo 0,2 per cento in agosto, potrebbe farlo ancora nei prossimi mesi, prima del termine del programma di quantitative easing previsto per marzo 2017.
Questi interventi sembrano però troppo limitati vista la gravità dei problemi che l’eurozona e l’Italia in particolare hanno davanti. Il nostro debito pubblico resta enorme a fronte di una crescita troppo debole per eroderlo. Lunghi periodi di disoccupazione rischiano di spingere sempre più persone verso l’inattività. Intanto, l’invecchiamento della popolazione pone una sfida formidabile per i nostri sistemi pensionistici.
La soluzione sta in interventi più radicali: per rendere la politica monetaria più efficace, le banche europeee e italiane in particolare vanno ricapitalizzate,anche a costo di penalizzare gli obbligazionisti subordinati. La ripulitura dei bilanci dai crediti deteriorati dovrebbe permettere agli istituti di credito di prestare di più alle aziende innovative, invece di continuare a scommettere sulla resurrezione dei loro debitori “zombie”.
Ma, come ha ripetuto più volte lo stesso Draghi, la politica monetaria non può bastare per far ripartire l’eurozona. Da questo punto di vista una priorità è tornare a ragionare in maniera decisa sulla spesa corrente degli Stati, ridisegnandone il perimetro, anche a costo di toccare diritti acquisiti come ad esempio la spesa pensionistica non legata ai contributi versati. Le risorse liberate potranno essere utilizzate per rilanciare gli investimenti pubblici e ridurre le tasse, aumentando la competitività del nostro sistema produttivo. Una manovra di questo tipo appare più utile di un esercizio indiscriminato di deficit spending, comunque impossibile viste le regole europee: un lavoro di Gianfranco Di Vaio, economista della Cassa Depositi e Prestiti, pubblicato adagosto, mostra come gli investimenti pubblici siano più efficaci se accompagnati da conti dello Stato in ordine.
Difficilmente la legge di bilancio di quest’anno, a cui stanno lavorando in queste settimane il ministro Pier Carlo Padoan e il sottosegretario Tommaso Nannicini, potrà imprimere una svolta di questo tipo. Il governo è infatti troppo impegnato a vincere il referendum sulla riforma costituzionale per spingersi in manovre coraggiose sul fronte del taglio della spesa. Una manovra auspicabile sarebbe una riduzione strutturale del cosiddetto cuneo fiscale, che potrebbe avere effetti più duraturi degli incentivi fin qui promossi, ma il governo non sembra purtroppo intenzionato a muoversi a riguardo.
Un’eventuale vittoria del Sì al referendum potrebbe aiutare a sollevare il clima di incertezza che sta frenando gli investimenti. Ma a quel punto il governo non avrebbe più scuse per implementare una rivoluzione più volte annunciata e, al di là delle scosse e delle frustate, mai del tutto compiuta.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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