La corsa alla casa bianca
Eastwood.
Nel 2012 parlò alla sedia vuota di Obama, oggi attacca il suo “buonismo”
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
NEL BUONO, nel brutto e nel pessimo di una stagione elettorale americana stralunata e polverosa come un western, irrompe sul set la figura di un gigante di Hollywood, Clint Eastwood, per salvare Donald Trump dai nemici e soprattutto da se stesso. «Alla fine dovrò votare per lui… È un duro… Uno che dice verità che gli altri non hanno il coraggio di dire, prigionieri della correttezza politica… Basta con questi leccac… che camminano sulle uova e con queste accuse di razzismo che non erano neppure razzismo quando io ero giovane».
Sembra di sentirlo, il vecchissimo ragazzone di San Francisco di un metro e 93 con quella sua voce afona e un po’ ansimante negli 86 anni compiuti il maggio scorso, mentre concede in un’intervista a Esquire la propria investitura a qualcuno come Trump, un attore che lui deve vedere appunto con gli occhi dell’attore e del regista, sicuramente più efficace dell’avversaria Hillary davanti all’obiettivo.
Ma in quella voce, che non sposterà voti come non li spostano mai le star del cinema e dello spettacolo che confondono la popolarità con l’autorevolezza, c’è l’eco di un’America che si è aggrappata a Trump, come quarantacinque anni or sono si aggrappò al personaggio fittizio di Dirty Harry, dell’Ispettore Callaghan che con la sua 44 Magnum dispensava giustizia sommaria, incurante di regole e di procedura. Negli anni rabbiosi e ansiosi del dopo ’68, della criminalità galoppante e del nixonismo “Legge e Ordine”, “Harry la Carogna”, come fu tradotto in Italia, l’ispettore era quello che oggi è Trump nello sbandamento collettivo tra insicurezza economica e violenza.
Sarà, questo voto senza entusiasmo annunciato da un uomo di cinema che da macchietta western in telefilm dozzinali in bianco e nero ha saputo diventare un monumento vivente all’arte popolare, un piccolo balsamo sulle piaghe che Trump ha aperto proprio nel partito repubblicano, scosso da brividi di ammutinamento contro di lui e da defezioni di parlamentari e maggiorenti che lo stanno abbandonando in favore di Hillary. E che tramano un impossibile golpe interno per evitare ai repubblicani una Caporetto elettorale, Senato e Camera compresi, che i sondaggi disastrosi ipotizzano, per quel che valgono a tre mesi dal voto.
Eastwood, che di nome fa, curiosamente “Clinton”, non è neppure nuovo allo schierarsi in campagna elettorale e non ha precedenti incoraggianti per il campo trumpista. Alla Convention Repubblicana del 2012, che nominò Mitt Romney destinato a essere demolito da Barack Obama, Clinton, cioè Clint, apparve sul palcoscenico in uno sketch accanto a una sedia vuota. Voleva rappresentare la “vuotaggine” del presidente afro in carica, lanciandosi in undici minuti di attacchi, risultati inutili.
Le sue predilezioni elettorali, che risalgono all’appoggio per Nixon, il politico al quale Trump si ispira, nel 1960 poi per Reagan, per Bush il Vecchio, per gli sconfitti McCain e Romney, ma non per Giorgio il Giovane che condannò per l’invasione dell’Iraq, non sono mai state adesioni di partito, ma slanci di affinità culturali. Nei candidati proposti dai Repubblicani, e soprattutto in Trump oggi, Clint ha ritrovato l’essenza di quell’Americanismo che i suoi personaggi hanno sempre rappresentato: l’individualismo. La fede nell’Uomo
Senza Nome dei western di Sergio Leone, dell’Ispettore con la sua 44 Magnum di Walt Kowalski al volante dell’ultima automobile veramente americana, la Ford “Gran Torino” di Chris Kyle, il cecchino di American Sniper solo dietro al mirino del proprio fucile in Iraq. Uomini che vogliono assumersi la responsabilità della storia in proprio fino a morirne per far giustizia come Kowalski, sfidando le convenzioni.
È un’adesione romantica, non ideologica, dunque, che il grandissimo vecchio di Hollywood offre a Trump, impastata di nostalgia per un’America che lui sa benissimo, come raccontò in Gran Torino, non tornerà più, nei connotati elementari della sua gioventù e del servizio militare con il grado di caporale in un Esercito vittorioso e non ancora umiliato in Vietnam. Per Clint, come per i milioni di americani bianchi che voteranno in maggioranza il Donald e che sono la sua base elettorale, Trump è l’ultimo hurrà di una generazione che è stata davvero “Grande” nel breve momento dell’inarrivabile grandezza americana dopo il 1941. Lui stesso l’ha narrata nelle lettere da Iwo Jima dei Marines caduti per piegare l’imperialismo nipponico.
Mentre il partito repubblicano che fu di un attore come lui, di Ronald Reagan, passa a un imbonitore da Reality Show come Trump, Clint stringe i denti e accetta di votarlo, per riassaporare un’ultima volta il gusto di un sogno. Tra le finte sceneggiature opposte che si contendono la Casa Bianca 2016, l’“America Unita” narrata da Hillary Clinton e l’“America Di Nuovo Grande” dietro il muro cantata da Donald Trump, il taciturno solitario che non riusciva a trovare un parte perché bisbigliava le battute tenendo i denti stretti, ha scelto l’illusione della propria giovinezza, per tornare non grande, che già è, ma “Young Again”, ragazzo per un giorno. Quando c’era una volta l’America.
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Il suo “endorsement” è un balsamo sul partito repubblicano, scosso dagli “ammutinamenti” In “The Donald” ritrova quell’individualismo che ha rappresentato spesso facendo cinema
QUEL MONOLOGO A TAMPA
L’attore e regista Clint Eastwood, 86 anni, nel 2012 alla Convention repubblicana parlò a una sedia vuota per mostrare la vacuità di Obama (nella foto qui sopra)