COMMENTI
ALBERTO BISIN
IL GOVERNO giapponese ha annunciato una nuova misura di espansione fiscale di dimensioni relativamente grandi (circa 240 miliardi di euro, anche se solo una piccola parte, 70 miliardi, di spesa diretta). È la quarta dal lancio della nuova politica economica del primo ministro Shinzo Abe nel 2013, che ha messo in atto simultaneamente grossi stimoli fiscali e monetari, nell’intento di scuotere l’economia giapponese dal suo torpore ormai pluri-decennale. Ma se questi stimoli hanno avuto un effetto a breve periodo, nel corso del 2013, il tutto è svanito rapidamente e il Giappone è tornato in recessione già nel 2014.
Nulla di nuovo peraltro. Sebbene non con la stessa intensità, i vari governi succedutisi dagli anni 90 hanno affrontato la crisi di crescita del Giappone a botte di interventi di stimolo fiscale (si contano 26 interventi straordinari dal 1992 ad oggi).
Per comprendere le ragioni per cui tutti questi interventi abbiano avuto effetti limitati è bene prima di tutto astrarre l’analisi da ogni elemento contingente e considerare gli effetti di uno stimolo fiscale da un punto di vista teorico. In questo mondo teorico immaginario, in cui i consumatori operano senza vincoli, uno stimolo fiscale non ha effetti sulla spesa privata perché i consumatori anticipano un aumento dell’imposizione fiscale in futuro per coprire le spese dello stimolo stesso. I consumatori, in altre parole, nonostante il proprio reddito corrente aumenti, non aumentano il proprio consumo al fine di risparmiare risorse per sostenere il futuro aumento delle tasse. Nelle economie reali, gli stimoli fiscali hanno invece sì effetti sul consumo, ma questi sono limitati a manifestarsi attraverso i vincoli che impediscono a questa economia di operare nella sua astrazione teorica. In particolare, gli stimoli fiscali hanno effetti espansivi quando sono mirati soprattutto a quei consumatori i cui obiettivi di spesa siano vincolati da mancanza di credito al consumo; quei consumatori cioè che, ad esempio, vorrebbero comprarsi un nuovo televisore ma non hanno la necessaria liquidità per farlo. Per questo gli stimoli fiscali in generale, e questo ultimo in Giappone non fa eccezione, sono mirati alle classi meno abbienti. Tutto bene quindi, a parte il fatto che gli effetti sulla spesa privata che ne risultano sono necessariamente di natura temporanea. Una volta acquistato il televisore i consumi ritornano al livello precedente, se non inferiore (perché la parte del televisore comparata a credito va ripagata e così le nuove tasse future). È quindi perfettamente in linea con la teoria che gli effetti delle politiche espansive in Giappone si siano manifestati solo temporaneamente, nel 2013, e che la recessione del 2014 sia stata generata in parte dall’aumento delle tasse al consumo che il governo non ha potuto evitare.
Vi è però un altro elemento di frizione importante su cui uno stimolo fiscale può agire e generare effetti anche duraturi: le aspettative di crescita di consumatori e imprese. Un aumento della imposizione fiscale in futuro perde di importanza in una economia che riprenda a crescere, quando cioè i consumatori si aspettano redditi crescenti e le imprese alti tassi di rendimento sui propri investimenti. In altre parole, politiche economiche espansive hanno maggiori effetti quando associate a politiche di riforma strutturale che, almeno in aspettativa, eliminino le ragioni dello stallo di crescita del paese. In questo caso esse possono fornire la miccia per far ripartire il ciclo di spesa ed investimenti privati, cioè la domanda aggregata. A onor del vero la nuova politica economica del primo ministro Abe prevede importanti interventi di carattere strutturale sull’economia del Giappone, ma i progressi in questa direzione si sono dimostrati lenti e faticosi. Non è facile, nemmeno per un governo interventista e con largo sostegno della popolazione come questo, operare interventi profondi sulla giustizia civile, sui mercati finanziari, sul mercato del lavoro e la produttività, sulle regole dell’immigrazione, su quei colli di bottiglia, cioè, da cui nasce la stagnazione che affligge il paese.
A questo si aggiunga che lo stato delle finanze pubbliche non può che suggerire imminenti tempi duri: un enorme debito pubblico (dell’ordine del 230% del Pil), sostenuto da un tradizionalmente elevato tasso di risparmio privato che però non può che ridursi notevolmente in un paese in incessante declino demografico (se oggi vi sono circa tre lavoratori attivi per pensionato si arriverà in soli 50 anni a un lavoratore per pensionato).
In questa situazione è davvero difficile immaginare che questo colpo di coda oggi possa anche solo contribuire ad ottenere l’effetto desiderato di far transitare il paese verso un processo di crescita duratura. Con ogni probabilità, i consumatori continueranno invece a limitare il più possibile le spese davanti all’incertezza riguardo al futuro e le imprese continueranno a mantenere elevatissime scorte di liquidità in attesa di tempi migliori per gli investimenti.
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“ Il governo di Shinzo Abe ha annunciato misure per 240 miliardi ma è improbabile che ottengano l’effetto desiderato
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