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CESARE DE SETA
CON una puntualità cronometrica e prevedibile, non appena le temperature salgono, un sortilegio vuole che scoppino incendi e la Campania quest’anno è stata la prima area del Paese investita dal fuoco: dapprima a Capri a Sopramonte, che è stato subito domato, poi il Vesuvio tra San Giuseppe Vesuviano e Terzigno, il giorno dopo il fronte del fuoco investe la pineta, risale il cono del vulcano, infine tocca a Boscoreale e Trecase. Lo “sterminator Vesevo” è assediato dalle fiamme e non è la cicca a provocare almeno cinque focolai, ma una strategia malavitosa di chi conosce i venti e la vegetazione meno resistente alle fiamme. Gli inneschi sono sistemati ad arte e il simultaneo propagarsi del fuoco rende più difficile l’opera dei Vigili del fuoco, del Corpo forestale, della Protezione civile, dell’Esercito e delle modeste forze dell’Ente Parco del Vesuvio. Gli elicotteri e i canadair dal cielo buttano acqua, ora di qui ora di lì. In cinque giorni sono stati distrutti venti ettari di bosco, il più devastante degli ultimi trent’anni: una benefica pioggia ha poi sedato gli incendi. Ma un nuovo rogo ha assalito la collina dei Camaldoli sul fronte di Soccavo, praticamente in città.
Il comandante del Corpo forestale e il presidente del Parco non esitano a dire che si è trattato di un atto doloso e criminale per attaccare il Parco del Vesuvio e il Protocollo della legalità sottoscritto dai cinque Comuni che lambiscono o sono in questa area per contrastare l’abusivismo edilizio. Un’intesa importante, con pene più severe: chi ha commesso l’abuso deve non solo abbattere l’edificio ma ne perde subito la proprietà che passa al parco, e se non lo fa deve pagare le spese di demolizione. Dunque qualcosa s’è fatto e sono un centinaio i beni entrati nelle proprietà del Parco che è il più vasto d’Italia e certamente il più suggestivo. Il Procuratore di Nola Paolo Mancuso ha aperto un’inchiesta, i Comuni investiti si sono mobilitati con le loro modeste risorse.
Gli incendi si rassomigliano tutti ed ho visto nella mia vita quelli che, a cadenza periodica, hanno devastato i boschi di Capri: l’ultimo spaventoso è del 1993 e ne narro in un libricino sull’isola azzurra. Lo spettacolo è lunare, gli scheletri degli alberi rimasti in piedi sono fantasmi, non c’è più nulla: a terra un tappeto di cenere grigio e funereo. Il rischio delle frane a ogni passo. Bisogna avere scarpe pesanti se si fanno di queste escursioni, perché s’affonda fino alle ginocchia e sotto può ardere ancora il fuoco. Al di là del benemerito lavoro delle forze impegnate in questo lavoro di spegnimento sempre difficile, perché chi appicca roghi lo fa con perversa intelligenza in modo da bloccare le strade per le autobotti. Questa è l’azione di repressione ma non è una strategia per fermare una cancrena che devasta l’Italia ogni estate ed è strettamente connessa alle frane che genera.
Bisogna creare una politica di prevenzione che si doti di vasche per l’acqua e una rete capillare di condotte che possano attingere agli acquedotti rapidamente. Incendi e assetto idrogeologico del territorio sono facce di una stessa medaglia. Allo stato attuale, che io sappia, non esiste una mappa del Paese che individui i punti più sensibili e li doti di quei mezzi di avvistamento telematico, che lanci subito l’allarme in modo che possano entrare in azione il personale, i mezzi e i sistemi di spegnimento. L’azione repressiva dopo che è scoppiata una catena di incendi è necessaria, ma è come svuotare il mare con un cucchiaio. Alcune associazioni ambientaliste hanno calcolato i danni che procurano questi incendi disseminati per il Paese da Portofino a Capri, dal Vesuvio al Cilento, nel Parco del Pollino, in Sicilia e Sardegna.
Goethe narra la sua ascesa al Vesuvio nella Italienische Reise (Viaggio in Italia): si potrebbero citare molte decine di illustri viaggiatori e di grandi pittori che hanno vissuto de visu le eruzioni del vulcano con pathos, allo stesso tempo pittoresco e sublime. Affacciarsi sulle creste del cono da cui si levano fumarole e s’ode il brontolio minaccioso del vulcano è un’emozione che almeno una volta nella vita bisogna vivere. Ma gli incendi sono opera di una consorteria di abusivi che con ogni mezzo s’industria a distruggere quel verde manto che ne ricopre le pendici. Dove ci sono abitanti, crescono viti e colture di grande valore anche economico.
Nei venti ettari bruciati in soli cinque giorni non vedremo la ginestra e qui non si può che ricordare Leopardi, che trascorse giorni sereni su una casa aggrappata alle falde del vulcano, e si può concludere solo con l’inizio di un suo “canto” tra i più celebri che ha per nome La ginestra o il fiore del deserto: “Qui su l’arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo / La qual null’altro allegra arbor né fiore / Tuoi cespi solitari intorno spargi / Odorata ginestra / contenta dei deserti. Anco ti vidi / De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade / Che cingono la cittade / La qual fu donna de’ mortali un tempo / e del perduto impero / Par che col grave e taciturno aspetto / Faccian fede e ricordo al passeggero”.
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