COMMENTI
ROBERTO ESPOSITO
A SPAVENTARE maggiormente, del terrore che abbiamo di fronte, non è il volto, ma il fatto di non averne. Le maschere che di volta in volta indossa ne rende difficile l’identificazione. Appena ne tentiamo una definizione, esso la smentisce cambiando i propri connotati. Come un serpente velenoso, o come un mutante, muta di continuo la propria pelle, per rendersi irriconoscibile. Soldati dello Stato islamico, devoti a un dio della morte, lupi solitari, paranoici, coloro che ci colpiscono sono tutte queste cose e nessuna di esse in modo esclusivo. A cambiare, nel giro di qualche settimana o di qualche giorno, sono i luoghi, le armi, le vittime. Da Bagdad a Dacca, da Parigi a Bruxelles, da Monaco a Nizza, il territorio delle loro incursioni sanguinarie è sempre meno circoscritto, sempre nuovo e inaspettato. Come del resto le armi impiegate, che vanno dalle cinture esplosive ai kalashnikov, da un camion a un coltello. A loro volta le vittime — comunque scelte tra le più deboli e indifese — sono le più varie, cristiani, musulmani, donne, bambini, vecchi, come il parroco sgozzato a Rouen. Si direbbe che la strategia del terrore sia quella di confondere le piste, di cancellare i contorni di persone e cose, di distruggere la differenza. È il lavoro della morte, che risucchia tutto nello stesso gorgo. Mentre la vita è fatta di differenze, la morte è l’indifferenza assoluta. Essa contamina tutto, distruggendolo, ammucchiando, accanto ai corpi delle vittime, anche quelli dei carnefici.
Se questa è la strategia consapevole, o comunque l’effetto oggettivo del terrore, dobbiamo opporgli il suo contrario. La capacità di capire e discriminare ciò che esso intende omologare. Riconoscere il profilo degli attentatori, ricostruirne le biografie, identificarne gli obiettivi. Cogliere le differenze interne a quel mondo e lavorare su di esse. Come tutti i fenomeni umani, anche il terrore ha un’origine e avrà una fine. Ha una identità e una storia. Benché possa apparirci sempre uguale a se stesso, da più di due secoli ha avuto caratteri e obiettivi assai diversi. Il Terrore scatenato alla fine della Rivoluzione francese non ha molto in comune con quello nazista. E questo, a sua volta, ha poco da spartire con l’equilibrio del terrore degli anni della guerra fredda. Per non parlare di quello, ancora diverso, che il nostro Paese ha conosciuto negli anni Settanta e Ottanta. Se il terrore di Robespierre e Saint-Just si voleva addirittura unito alla virtù, quello totalitario aveva pur sempre la finalità politica di cancellare ogni resistenza. A sua volta il terrore della bomba tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso ha avuto quantomeno l’effetto di impedire la terza guerra mondiale.
Anche il terrore del fondamentalismo islamico persegue un disegno che dobbiamo ricostruire nelle sue differenti cause e finalità, per poterlo fronteggiare adeguatamente. Quanto alle prime, nascono sia dall’interno del mondo islamico radicale sia dalla forma caotica e ineguale che ha assunto la globalizzazione. A esse vanno aggiunti gli errori delle potenze occidentali nella frettolosa destabilizzazione di alcuni regimi tirannici e l’ambiguità di Paesi che hanno fatto, o fanno, il doppio gioco, fornendo appoggio allo Stato islamico che dicono di combattere. Gli obiettivi del terrore sono innanzitutto il predominio sull’intero mondo musulmano. L’attacco all’Occidente è funzionale a questo scopo primario. Perciò essenziale è la reazione degli islamici — non tanto in quanto moderati, ma in quanto prime vittime del terrore. Ma fondamentale è cogliere la distinzione tra obiettivi e strumenti. Non sempre questi ultimi corrispondono ai primi. Lo sciame di attentati “fai da te” non risponde a una logica, né politica né religiosa. È un esito indotto dai primi attentati, che si muove autonomamente rispetto a chi soltanto dopo mette il proprio marchio sul lavoro sporco degli emulatori. Perciò il discorso aperto da “Repubblica” sulla responsabilità dei mezzi di informazione è decisivo in uno scenario in cui immagini e toni esagitati possono avere conseguenze letali. Mai come in questi momenti — forse i più drammatici vissuti dalla nostra generazione — la capacità di capire e di rispondere senza farsi trascinare nell’uniformità del terrore è l’arma più efficace che abbiamo a diposizione. Usiamola senza regalare un altro vantaggio agli uomini senza volto.
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