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Giustizia e politica, cosa resta dopo la zuffa

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Se, come insiste Renzi, i partiti dai giudici si attendono le sentenze e non altro, dal governo e dal legislatore sarebbe lecito attendersi le leggi, almeno quelle annunciate.

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Parlare per slogan può risultare efficace, ma a volte gioca brutti scherzi. Soprattutto quando si affrontano ricostruzioni storiche o questioni complesse, come i rapporti tra politica e giustizia. Dire che «i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi» spiega poco o nulla di come s’è evoluto il fenomeno della corruzione; però fa un bell’effetto, tanto più se ad affermarlo è il rappresentante dei magistrati italiani, il giorno dopo che il capo del governo ha sostenuto: «Noi vogliamo che i magistrati parlino con le loro sentenze». Altra frase che non aiuta il confronto né l’analisi della realtà: perché spesso il verdetto finale di un processo dipende da fattori e valutazioni indipendenti dai fatti emersi, e la selezione della classe dirigente non può essere legata solo al casellario giudiziario. Sarebbe l’ennesima, impropria delega affidata dalla politica ai giudici, denunciata più volte da Paolo Borsellino (che certo non si limitava a parlare con le sentenze), tanto inascoltato in vita quanto celebrato da morto come «magistrato eroe». 
L’ultimo capitolo del conflitto tra chi governa e chi giudica risente delle semplificazioni che servono a lanciare messaggi chiari e immediati, e con due comunicatori di professione come Piercamillo Davigo e Matteo Renzi il rischio di continuare su questa strada è altissimo. E porta con sé il pericolo di una rumorosa zuffa che però, posatasi la polvere, lascia tutto com’è. Lascia tutto com’è, per esempio, nel contrasto alla corruzione, che dovrebbe essere il fulcro della discussione innescata dall’ultima indagine avvicinatasi ai palazzi del potere (al di là del merito del lavoro della Procura di Potenza, sul quale è pure legittimo avanzare riserve ma dev’essere vagliato nelle sedi giudiziarie competenti, non in Parlamento). Che il malaffare legato alla gestione della cosa pubblica sia un’emergenza l’ha ammesso lo stesso Renzi quando ha dato nuovo impulso all’Autorità anticorruzione, chiamando a dirigerla un magistrato piuttosto noto alle cronache e tirandolo in ballo ogni volta che qualche inchiesta giudiziaria ha creato problemi alla politica: dall’Expo agli arbitrati sui risparmiatori danneggiati dalle banche, passando per il Mose e Mafia capitale. Si può con questa mossa considerare chiusa la questione? Ovviamente no. Se governo e Parlamento sono riusciti a fare qualcosa per aumentare prevenzione e repressione, è evidente che il fenomeno è ben lungi dall’essere sconfitto; passare il tempo ad accusarsi reciprocamente di non voler vincere la battaglia perché i ladri sono nascosti tra chi fa le leggi, e di non saper applicare le leggi perché troppo impegnati in campagne propagandistiche, non serve a nessuno. Tantomeno ai cittadini che della corruzione pagano il prezzo più alto, in termini di aumento della spesa pubblica e servizi scadenti. 
Per scoprire e perseguire questo genere di reati — sommersi per definizione, giacché a nessuno conviene denunciarli — è essenziale lo strumento delle intercettazioni; ora pare che l’intervento più urgente sia diventato limitare o impedire la loro diffusione sui mezzi d’informazione. Ma le circolari di alcuni procuratori dimostrano che non serve una nuova norma per adottare contromisure di buonsenso. In ogni caso il dibattito su alcuni eccessi, o su certe pubblicazioni inopportune, non dovrebbe oscurare le pratiche corruttive (ancorché da accertare), ma anche solo di malcostume (non penalmente perseguibili, ma non per questo irrilevanti) che emergono da quel tipo di indagini. Piuttosto, nel programma di governo c’era la riforma della prescrizione che com’è concepita ora — o meglio, come la concepì il governo Berlusconi a suo tempo — rende molto difficile giungere a una condanna definitiva per reati di corruzione. Da circa un anno un disegno di legge che cerca di rimediare a questa disfunzione è fermo al Senato, per via dei contrasti interni alla maggioranza tra Pd e Nuovo centrodestra. Se, come insiste Renzi, la politica dai giudici si attende le sentenze e non altro, dalla politica sarebbe lecito attendersi le leggi. Almeno quelle annunciate.
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