COMMENTI
ALBERTO MELLONI
OGNI epoca ha conosciuto lacerazioni politiche, confessionali, ideologiche, nazionali, spesso ben più gravi di quelle che percorrono il dibattito politico dentro i partiti o le istituzioni. Ma quelle che la cronaca registra da noi in questi mesi sembrano più drammatiche: perché non sono episodi ripetuti, ma l’espressione di una cultura dello scisma che riverbera nel piccolo della nostra cultura perché riempie col suo sordo rumore il mondo. Anziché percepire l’esistenza d’una “societas” entro la quale si danno conflitti e lotte con una direzione, vediamo attorno a noi il progredire di spaccature che fanno ogni “societas” personale o collettiva un’accozzaglia di brandelli e risentimenti. Dove tutto può diventare e diventa occasione per temersi e minacciarsi. Pezze disordinate destinate a rimanere tali finché non nascerà un’arte della sutura, la cultura dell’ago e del filo.
Renzo Piano, in uno slancio di ottimismo, ha usato proprio la figura del “rammendo” per parlare con aristocratica dolcezza delle periferie urbane: ma basta salire sugli autobus che attraversano i centri storici per sentire il rumore della paura, che estranea le anime. Zygmunt Bauman ci propone da anni la metafora della società liquida: consolatoria, al fondo: perché suppone una solidarietà fisica fra le molecole, una qualche prevedibilità dei comportamenti. La formula del Papa sulla terza guerra mondiale a capitoli viene salutata con entusiasmo, e tutti sperano che abbia ragione: giacché le guerre, prima o poi, finiscono.
In realtà ognuno ha coscienza di vivere afflitto da un tribalismo molteplice, premoderno e postmoderno: fatto di panni laceri e sospetti invincibili — che solo di rado e in comunità obbligatorie come quelle della scuola, della cella o dell’ospedale si abbassano un poco. Perché sul piano generale la cultura della “sforbiciata” (lo scisma vuol dir questo: tagliare ciò che era stato intessuto in un unico telo) colpisce su vasta scala. Sale da un punto molto profondo, la cultura dello scisma, e affiora in quelli che sono esantemi: nel turpiloquio dei “lettori” che commentano gli articoli di giornale sul web, nello smozzicato linguaggio dei social, nella catechesi del trash che ogni giorno addita agli odiati chi odiare di più. La scissione metodica divide un “loro” sempre più simile al “tutti”, e un “noi” sempre più vicino all’“io” solitario del consumatore, reso impotente e ringhioso dalla crisi. Tutti bloccati nell’attesa che qualcosa, qualcuno impugni ago e filo e ricrei quel tessuto comune nel quale il contrasto, duro e necessario, ridiventi processo e non insulto vitalista.
Le sapienze spirituali e civili che ci appartengono ci hanno insegnato il valore di ago e filo.
La parola biblica, che ha infatti disilluso da sempre gli utopisti, ricorda a tutti che la perfezione andò perduta all’inizio del tempo, davanti all’albero del bene/male dove la più dolce differenza della femmina e del maschio diventò occasione del primo “j’accuse”: scena, com’è noto, che impressionò assai il Creatore dei mondi, il quale nel primo lunedì del tempo, compì un gesto profetico e si mise cucire gli abiti dei progenitori. Con ago e filo.
La sapienza costituzionale ha sempre pensato di non aver nulla di perfetto e di non aver altro fondamento che la sua capacità di diffidare degli integralismi religiosi e irreligiosi: ha dunque creato istituzioni che volevano tenere insieme la società e rendere così possibile la fecondità comune della divergenza cucendola con principi, diritti, valori che sono l’ago e il filo della democrazia.
Ma il mondo vede scossa, al ritmo del ciuffo di Donald Trump, la fiducia nelle sapienze e nelle democrazie su scala globale. E la scena italiana ricalca nel suo piccolo questa tendenza. Le culture politiche si slabbrano talmente tanto da aver reso le amministrative la madre di tutte le battaglie: come se perdere o vincere Milano fosse la scena finale del remake della “La guerra dei Roses” prodotto dal Pd; con Sel che attende dalla sconfitta a Roma un oracolo sul proprio baricentro; la destra che fa la sua prima resistenza alla desistenza; e il centrodestra che spera che il taumaturgo delle sue incertezze venga da fuori. Le culture istituzionali si slabbrano: perché nel momento in cui la magistratura interroga il ministro dei rapporti col Parlamento sulla formazione della volontà politica di un Parlamento che troppo spesso il governo ha trattato da notaio delle propria agenda, si ha il senso di quanto profonde siano le lacerazioni. I 14 partiti che sostengono Matteo Renzi ammirano, temono o sfruttano molte cose di lui, ma non certo l’uso dell’ago e del filo; e di quelle forze che furono movimenti di massa e “think tank” restano federazioni di minoranze e di smodate ambizioni, con pochi “tank” e ancor meno “think”.
Vuol dire allora che ago e filo non si possano usare, che sono arnesi desueti o finiti? No: e lo dimostrano due uomini così diversi come papa Francesco e il patriarca Bartolomeo. Loro hanno come vocazione quella di ricucire col filo del perdono le chiese così che diventino per grazia la tunica “senza cuciture” di Gesù descritta dal vangelo di Giovanni: e stanno obbedendo a quel comando. Ma il loro sforzo di unità viene visto da una politica analfabeta del religioso come un’eccezione del “pianetino cristiano”, capace, se mai, di impennate profetiche come la visita ai profughi di Lesbo. Invece è vero proprio il contrario. Se il nome di Dio, usato nelle più irrefrenabili violenze, può essere usato per fare perdono e unità, allora ogni ricucitura è possibile.
Se si cerca ago e filo, se si trovano la voglia di imparare a cucire e di rammendare.
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