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Le Regioni e il rebus delle spese

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di Maurizio Ferrera

La sfida è da un lato concedere maggiore autonomia in modo da promuovere flessibilità, sperimentazione, responsabilità, e dall’altro evitare di produrre disparità di diritti fra cittadini

Le Regioni e il rebus delle spese

Illustrazione di Doriano Solinas

Sull’autonomia differenziata si è alzato il consueto polverone. Le opposizioni denunciano la «secessione dei ricchi», il governo risponde che l’autonomia porterà vantaggi per tutti. Si tratta di slogan astratti, che trattano la questione come se fosse uno strappo inatteso (nel male e nel bene) rispetto al passato. Dimenticando così due fatti fondamentali. Primo: l’autonomia differenziata è prevista e disciplinata dalla Costituzione, a seguito della riforma adottata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2000. Secondo: l’attuazione di questo principio è iniziata nel 2017, con la richiesta di trasferimento dei poteri in varie materie da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e la successiva definizione di accordi preliminari con il governo Gentiloni nel febbraio 2018. 

Dunque perché gridare oggi al lupo? E perché, da parte del governo, esultare per un disegno di legge che ripropone punti spinosi già sollevati e non risolti dai governi precedenti: Conte 1, Conte 2 e Draghi? La polarizzazione del confronto può dare visibilità elettorale, ma certo non contribuisce a realizzare in modo efficace quel regionalismo «asimmetrico» che, seppur con accenti diversi, è sempre stato sostenuto dai principali partiti. 

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L’Italia non è né il solo né il primo Paese a voler introdurre il federalismo fiscale. Negli ultimi decenni, il trasferimento di poteri e competenze dal centro alle regioni ha interessato molte democrazie occidentali. E la sfida è stata ovunque la stessa. Da un lato, concedere maggiore autonomia in modo da promuovere flessibilità, sperimentazione, responsabilità. Dall’altro, evitare di produrre disparità di diritti fra cittadini. Conciliare questi due obiettivi si è rivelato tutt’altro che facile. Dalle analisi più accreditate (come quelle dell’Ocse), emerge che nessun Paese ha trovato la ricetta ottimale. I nodi più insidiosi riguardano il pacchetto di servizi da garantire a tutti, le compensazioni fra regioni ricche e povere, i sistemi di monitoraggio. E il diavolo tende a nascondersi nei dettagli. 

La definizione del pacchetto di servizi garantiti, che noi chiamiamo livelli essenziali di prestazione (Lep), è indispensabile per salvaguardare un minimo di omogeneità territoriale. L’articolo 117 della Costituzione riserva questo compito allo Stato. Finora, l’unica materia fra quelle trasferibili — più di venti — in cui sono stati introdotti questi livelli è la sanità. Qualcosa è stato fatto nel settore dei servizi sociali, ma nelle altre materie non c’è niente. Il disegno di legge Calderoli ribadisce che l’approvazione dei Lep è una condizione necessaria per concedere l’autonomia. Auguri, è il caso di dire, visto che la questione è sul tappeto sin dal 2001. 

I livelli essenziali vanno definiti non solo nel contenuto, ma anche nei loro costi standard. Solo così sarà possibile quantificare le risorse che lo Stato deve garantire a ciascuna regione, a seconda del fabbisogno. La Costituzione prevede un fondo perequativo a sostegno dei territori con minore capacità fiscale. Nella maggior parte dei settori d’intervento, oggi osserviamo una enorme variazione territoriale nei livelli di spesa pro capite. Prendiamo i servizi sociali (anziani, minori, famiglie, disabili e così via). Nelle regioni a statuto speciale si va dai 583 euro annui di Bolzano ai 53 euro di Messina. Nelle regioni ordinarie si va dai 246 euro di Bologna ai 6 euro di Vibo Valentia. Le differenze rimangono molto ampie anche in termini di servizi erogati: 6 prestazioni ogni 100 residenti a Napoli contro i 30 di Piacenza. In alcuni comuni della Calabria la cifra è vicina allo zero: nessun servizio. La famosa differenza fra cittadini di serie A e di serie B non è uno scenario futuro da paventare, è l’iniqua realtà di oggi. La maggioranza dei cittadini del Sud non si lamenta perché forse nemmeno sa che potrebbe pretendere di più. 

In gran parte, queste differenze sono dovute alle carenze di «capacità» delle regioni meridionali: personale, strutture, soprattutto competenze. Come sottolinea anche l’Ocse, il deficit di capacità non implica solo bassa qualità delle prestazioni (o la loro assenza), ma favorisce anche fenomeni di clientelismo e di corruzione. 

Il monitoraggio serve proprio per identificare divari e carenze e predisporre soluzioni. Si tratta però di un fronte in cui il nostro Paese eccelle per inadeguatezza. Quando va bene, regioni ed enti locali rendicontano le spese effettuate, ma i successivi controlli sono essenzialmente formali. Questo sistema non può spiegare perché, ad esempio, Avellino e Lecce registrino la stessa spesa pro capite ma eroghino quantità di servizi molto diverse: 15 prestazioni ogni 100 residenti a Lecce, 3 ad Avellino. Il monitoraggio basato sugli output (non solo la spesa, ma le effettive prestazioni e, possibilmente, la loro qualità) è la chiave di volta del federalismo fiscale. Il ddl Calderoli prevede l’istituzione di due commissioni tecniche fra i cui compiti c’è la predisposizione di una adeguata base conoscitiva. È un passo nella giusta direzione. Ma il suo buon esito non va dato per scontato. Anche qui, infatti, il diavolo si nasconderà nei dettagli, che per ora non conosciamo. 



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