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Una landa squallida

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I Guastatori d'Italia

Ci fu un tempo in cui l'Italia era territorio pieno di selve foltissime; pianure e montagne coperte d'un denso strato di verde davan un'aria balsamica, più ricca di umori e il sole, non ancora tenace e tropicale come oggi lo conosciamo, si celava più che oggi di nuvole.

Quando scomparvero quelle selve? Nel cinque, nel seicento v'erano ancora. Eccole vive, soltanto che contemplate i fondali tempestosi o le serene calme serali dei quadri di Guido Reni e del domenichino. La strada che mena da Ferrara a Bologna si svolge oggi in una pianura uguale a quella che noi moderni, ancora non guariti dai postumi romantici, chiamiamo piatta e noiosa.


Ma soltanto due secoli fa il presidente De Brosses parlava della pianura che si stende fra Ferrara e Bologna aperta d'alberi all'eccesso. di guisa che non si scorge altro che un piano di foreste formate dalle cime degli alberi. Ecco le selve intricate dell'Orlando Furioso, i paesaggi dei pittori bolognesi e ferraresi sontuosi d'alberi vigoreggianti di calme aure silvestri, di molli scene serali fra cupole d'ombra. 

  L'apice delle distruzioni si raggiunse nell'Ottocento, l'anarchia di comando le favorì. Le guerre frustrarono i tentativi di rimboschimento. L'Italia si avviò a divenire quella landa squallida che ci preparano. 


  Si sente il definitivo annuncio d’una distruzione totale degli alberi superstiti delle nostre contrade. Chi vi salverà più, maestosi ippocastani dei grandi viali veneti, salici chiari e pioppi nel tenero paesaggio di vecchie ville in pietra bianca d’Istria brunita, di muraglie in rosa stinto, di viti allacciate? Su di voi pesa sentenza di morte: voi disturbate le libere corse dei vitelloni che debbono correre a centocinquanta chilometri all’ora. Domani daran noia le ville e spianeremo anche quelle, e spianteremo i frutteti ai margini delle strade. Inutile dire che meglio sarebbe l’insegnare ai vitelloni prudenza e pazienza anziché distruggere quel che rimane della bellezza italiana.


  Vedete le città. Oppresse da periferie idiote e balcaniche, nate senza piani e senza riguardi, tutte uguali: uguali a Bagdad come a Cincinnati senza riguardo per tradizioni e maniere architettoniche dei luoghi. Oppresse di fuori non riescono a difendersi neppure di dentro. Le esigenze di «risanamento», le imperiose necessita della vita moderna sono le grida di lotta di una minoranza di avventurieri, di ladri, di furbacchioni che riescono sempre a spuntarla. 


  Credono o dicon di essere moderni soltanto col far fare alle nostre città e alla campagna, indigestione di cemento, di bitume, di latta, di vetro. Materie vili e tetre che presto invecchiano e si macchiano di bave smoccolate e orrende.  Ma il verde degli alberi e i bei rossi, i rosa, i bruni i gialloocra dei nostri mattoni (ce ne ancora in giro di quelli romani, sottili come foglie i colori infiniti e temperati delle diverse terre e delle diverse cotture, le pietre bianche e sensibili alle diverse luci e umidità, i colori antichi e cari delle nostre città, non dovremo vederli più? E linee familiari, umane, di palazzi dove era bello vivere oppresse e avvilite, quando non polverizzate da sagome enormi e tronfie che si ergono a schiacciarli? E i laghi distrutti incanalati, i fiumi seccati e ridotti ammassi di pietrame, i paesi arrampicati sui poggi anche quelli somiglianti ormai alle città orribili delle periferie tutti avviliti dalla copia delle comodità cittadine: questa lontana e così naturale grazia della nostra terra, non ci accorgiamo che sarà tutta perduta nel giro di pochi anni? Borgate marinare, villaggi alpestri scimmiottano Kansas City, nel cervello di ogni geometra incaricato di tirar su una villetta in un poggio umbro o toscano si agitano i fantasmi della «casa della cascata». 


  L'intera costa ligure è ormai perduta, soffocata fra un diluvio di cementi multicolori. di piastrelle. Una landa, una squallida landa diventa l'Italia. Una landa che nessuno vorrà più amare. 


  Come si giunse a questo, ci domandiamo una infinità di volte. E altrettante volte ci siamo chiesti che cosa facessero le autorità preposte alla custodia della bellezza italiana i sopraintendenti ai monumenti alle belle arti. Ne davamo la colpa all'inerzia e allo spirito accomodante di costoro. Ecco che uno di loro uomo colto e sensibile, Alfredo Barbacci, ci ragguaglia sulla sua opera di funzionario sceso a combattere a viso aperto sulle colonne dei giornali. Ecco, diciamo la verità. Già in questa scelta del mezzo migliore di combattimento è la confessione di una sfiducia. Il funzionario sente, capisce che i mezzi in suo potere, che le difese che la legge gli offre sono troppo tenui e fragili. il peso di un miliardo è troppo forte in Italia perché gli si possa resistere. Spesso si tratta non di miliardi, ma di pochi milioni. La questione, prima di tutto, è di costume civile: sta nell'indifferenza degli italiani alle cose dell'arte e del paesaggio. Se si eccettuano alcune comunità cittadine vigili (ma fino a un certo punto) come i fiorentini nella difesa delle loro città, l'italiano medio davanti a uno scempio architettonico si comporta come il bolognese tipico che il Barbacci descrive mentre guarda gli edifici monumentali, guarda i nuovi che evidentemente non lo sono, e si allontana scuotendo il capo. Giudizio, a nostro meditato avviso, ancora ottimistico: diremmo piuttosto che l'italiano medio adora il cemento, idolatra vetri, cristalli e bandoni dipinti, adora le piastrelle degne delle latrine che decorano le nuove sorgenti facciate. Così come detesta gli alberi e gli animali e ama alla follia i rumori che bada da mane a sera a produrre con fantasia inesauribile. Quello che di armonioso e sobrio e raffinato e bello fu prodotto nelle nostre città e nel nostro paesaggio nel corso dei secoli fu compiuto da una minoranza civile che riuscì a non farsi sommergere dalla maggioranza indifferente e addirittura ostile. 


  La disparità è divenuta ancora più catastrofica. Potremmo dire che ieri concorrevano insieme alla creazione della bellezza i signori (committenti delle nuove opere), il clero che affidava agli architetti la costruzione delle nuove chiese e gli architetti medesimi: nessuna di queste tre grandi categorie era temibile, poiché tutto allora poggiava sull'autorità di uno “stile” di un linguaggio comune che l’architettura ebbe fino al declinare dell'età neoclassica. Chi distruggeva allora le opere dei secoli precedenti per erigervi le sue aveva pure scusanti: dava qualcosa in cambio. Restituiva sotto altra forma ciò che toglieva. 


  Oggi questo diritto, nessuno può arrogarselo, nel caos triviale e sgraziato che si vuol chiamare architettura contemporanea

Oggi, il diritto a  distruggere deve essere tolto a chicchessia. Ma oggi, le tre forze che abbiamo nominato si sono volte contro la bellezza. Il posto del signore è preso dallo speculatore edilizio che non guarda in faccia a nessuno, dal “marpione” prevaricatore vittorioso che sa “ungere le ruote”, trionfare di leggi e regolamenti, e magari farsi perdonare qualche marachella più grossa delle altre con “opere benefiche”. La retorica umanitaria, la più imbecille, si mescola a questi disastri. «Se mi lascerete gli ultimi piani del grattacielo intatti” insinua mellifluo lo speculatore “vi costruirò gratis  l'asilo nido per i vostri bimbi". E così, l’ultimo torvo pezzo del parallelepipedo che si erge osceno nel mezzo di Napoli o di Bologna di Milano o di Venezia si agghinderà delle dolci sembianze della bontà, della beneficenza e della solidarietà umana. 


  Il signore, abbiam detto. Viene poi un clero furbastro, avido, ignorante, abilissimo nell’eludere le leggi, nel beffare il funzionario, perché sa di poter ottenere in alto loco protezioni e incoraggiamenti. È il clero che in questi giorni a Bologna assiste soddisfatto alle ultime manovre che porteranno alla distruzione della chiesa di San Giorgio. Colpita dalle bombe americane la chiesa venne gravemente danneggiata all'interno, ma conservò tuttavia intatta la facciata. L'Arcivescovado. dopo aver ottenuto il riconoscimento dei danni cli guerra, li trasferì su altra chiesa. Evidentemente, la vecchia chiesa di San Giorgio non serviva più. L'Arcivescovado l'abbandonava al suo destino. Anzi, la stessa mensa Arcivescovile presentava ne! 1959 un progetto per la trasformazione della chiesa in un edificio speculativo con gallerie e negozi. La facciata, nel primo progetto, sarebbe stata mantenuta. Poi, in una "successiva variante", si propose invece il bastardo espediente di trasferire la facciata a un'altra chiesa. Ora san Giorgio ha il suo destino segnato. È stata venduta e nessuno potrà più salvarla. 

  E che dire della chiesa romana di Sant'Andrea a Piacenza, che un prete vende a un altro prete ne! 1954, a scopi speculativi? Il prete acquirente comincia a smantellare il tetto, ma le proteste di alcuni cittadini inducono la Sopraintendenza ad informarne il Ministero, finché la demolizione viene proibita. Allora, il prete chiede un'indennità per il mancato guadagno oppure ventiquattro milioni per cedere allo stato l'immobile che gliene costa quattro. Ottiene in dono sei milioni, ma nel 1958, di notte il bravo prete comincia la demolizione della chiesa. Distrugge due colonne, che trascinano giù gli archi e parte del tetto con pericolo dei passanti. Il prefetto diffida il prete e fa vigilare la chiesa di giorno e di notte.  Il comando dei Carabinieri denuncia il prete alla procura ma senza effetto. Vigilato dalla forza pubblica della città. il monumento è però senza difese contro le "pressioni romane" del bravo prete che, alla fine, la spunta e nel Giugno 1960 ottiene dal Ministero della Pubblica Istruzione il permesso di demolire la odiata chiesa romanica. 

E che dire ancora del prete di Reggio Emilia che aveva chiesto e ottenuto che “il Genio Civile, d'accordo con la Soprintendenza ai monumenti effettuasse costosi restauri” alla sua chiesa. E che la distrusse. dopo aver incassato i contributi per riutilizzarne il terreno, sicché quando il tecnico statale giunse per collaudare i restauri» non trovo più nulla? Il prete fu denunciato, ma neanche a dirlo andò assolto! Per sua fortuna si trattava soltanto di una chiesa monumentale e di pochi milioni spesi dallo Stato”, commenta amaramente Barbacci: “se invece si fosse trattato di una mezza dozzina cli mandarini (ricordate il famoso furto cli sei mandarini dell'anno scorso? avrebbe conosciuto l'onta della prigione”. 

  Le storie incredibili si allineano una dopo l’altra. Si passa da Venezia, la cui causa anche noi sostenemmo su queste colonne, a Napoli e alla sua edilizia sgraziata, informe che distrugge vie poetiche come via Medina, schiaccia Palazzo San Giacomo, avvilisce antiche chiese; da Napoli a Genova a Milano, a Roma, a Bologna e a Padova. È come la serie di stazioni cl! una via Crucis che Alfredo Barbacci ripercorre con l'anima e l’intelligenza dell'appassionato ma anche con l’amarezza cli chi è stato preposto dallo Stato alla vigilanza e alla tutela dei monumenti e del paesaggio urbano italiano; e poi, dallo Stato è lasciato abbandonato e senz’armi sufficienti contro l’avidità e l’ignoranza. L’Italia lentamente scompare. L’Italia umana, che si poteva amare, e era varia e elegante, e diversa da città a città. Questa Italia se ne va per sempre. Ne sortirà un informe braccamento, dappertutto uguale, livellato e noioso. L’Italia di lor signori, architetti modernisti e preti maneggioni, e speculatori e politicanti “sociali”, aperti a sinistra e da tutte le parti, salvo che verso la sensibilità e l’intelligenza. E ci resteranno i libri come questo a testimoniare che come sempre, nei mali nazionali, qualcuno aveva visto giusto, aveva ammonito, si era battuto, inutilmente, come sempre in questo paese.


Brano tratto da "Una Nazione in Coma", di Piero Buscaroli, dal 1793 , due secoli di Ritratti.

 


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