testo di 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐂𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐢*
La lotta fra papato e impero, che infuriò violenta al tempo degli imperatori della casa di Svevia – 𝐅𝐞𝐝𝐞𝐫𝐢𝐜𝐨 𝐈 (1152 1190) ma soprattutto suo nipote 𝐅𝐞𝐝𝐞𝐫𝐢𝐜𝐨 𝐈𝐈 (1194-1250) –, sembrò dividere l’Italia in “guelfi” (fautori del papa) e “ghibellini” (fautori dell’imperatore): una divisione, questa, che sarebbe rimasta a lungo, tanto che nella Toscana cinquecentesca, per esempio, si sarebbe ancora parlato di “guelfi” e “ghibellini”. In realtà però, queste “parti” o “fazioni”, lungi dal corrispondere a partiti nel senso moderno del termine, non erano propriamente neppure schieramenti coerentemente contrapposti. Non si diventava guelfo o ghibellino per scelta autonoma o per decisione animata da un problema di coscienza, bensì a seconda che i propri avversari appartenessero a questa o a quella parte; e d’altronde non era raro, nell’Italia due-trecentesca, il vedere guelfi scomunicati dal papa e ghibellini posti al bando dall’imperatore. Del resto, se in una città prevaleva il partito guelfo, cacciando in esilio o sottomettendo i ghibellini, questi si collegavano immediatamente alle vicine città ghibelline per far lega contro la propria patria; e, naturalmente, viceversa. In tal modo, la lotta fra città si complicava con la lotta civile all’interno di ciascun centro urbano, e la spirale di violenza e di vendetta così aperta diveniva insanabile: all’ombra e con l’alibi dei nomi “guelfismo” e “ghibellinismo” si consumavano le più feroci efferatezze. La premessa è necessaria perché al tempo di Dante, e in modo specifico nella sua Firenze, la lotta fra le diverse forze cittadine si intrecciò con quanto avveniva nel resto d’Italia e d’Europa.
Nel 1250 a Firenze avevano prevalso i “popolani” appoggiati dal papa contro gli aristocratici prevalentemente ghibellini; negli anni immediatamente successivi, la città, assurta a grande prosperità grazie all’abilità mercantile e imprenditoriale del ceto asceso al governo, aveva gradualmente imposto la sua egemonia ai centri toscani circostanti. In tal modo nel 1252, lo stesso anno della vittoria conseguita dai fiorentini a Pontedera contro Pisa e Siena, la consapevolezza della prosperità e dell’importanza raggiunte si espresse nella coniazione, “per onore del Comune”, di quel fiorino d’oro fino di 24 carati (3,537 grammi) – «e contavasi l’uno soldi venti», come dice 𝐆𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐕𝐢𝐥𝐥𝐚𝐧𝐢 – con l’emblema del giglio da una parte e dall’altra il patrono della città, san Giovanni Battista, destinato a divenire nel corso di pochi anni la moneta più pregiata e stabile in Europa, una sorta di “dollaro del medioevo”, insieme con il ducato veneziano, detto “zecchino”.
Grande fu a Firenze in quel periodo anche il fervore in campo edilizio: in quello stesso 1252 venne costruito il quarto ponte sull’Arno, detto di Santa Trinita; nella stessa epoca i domenicani terminavano nella periferia occidentale della città l’ampliamento della loro basilica di Santa Maria Novella; i francescani, da parte loro, nel 1252 avevano iniziato a erigere in quella orientale la nuova Santa Croce, sul luogo della loro prima dimora. L’opera più grandiosa fu però il Palazzo del Popolo, iniziato nel 1255 e portato a termine con eccezionale rapidità. Dell’orgoglio cittadino di allora è testimonianza la lapide dedicatoria, in cui Firenze, paragonandosi a Roma, si vanta di possedere «il mare, la terra e il mondo intero».
Nonostante gli splendidi successi riportati, il regime “del Primo Popolo” – durante il quale, secondo le parole del Villani, «i cittadini di Firenze viveano sobrii, e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi» – durò solo dieci anni, minato dalla ristrettezza della sua stessa base sociale, dall’ostilità dell’aristocrazia ghibellina e dall’atteggiamento ambiguo di quella guelfa. Esso venne alla fine clamorosamente sconfitto nella battaglia di Montaperti, il 4 settembre 1260, dalla coalizione ghibellina con a capo Siena, che nel 1259 si era sottomessa a re Manfredi, figlio naturale ed erede politico di Federico II. Il passaggio della città nelle mani dei ghibellini le consentì, tuttavia, di evitare quella distruzione che i senesi e gli altri nemici toscani avevano deciso durante una riunione – il famoso “parlamento di Empoli” – in cui, secondo la tradizione, il nobile ghibellino Farinata degli Uberti si levò a parlare per difendere la sua città «a viso aperto» – gesto poi immortalato da Dante (Inf X, 91-93) e dal Villani – convincendo gli alleati ad abbandonare il loro scellerato proposito.
È in tale contesto che, nel “sesto” o “sestiere” di Porta San Piero, nella parte nordorientale della città, fra il maggio e il giugno 1265 nacque Durante, detto Dante. Suo padre, Alighiero di Bellincione di Alighiero, morto verso il 1283, discendeva da una famiglia della piccola aristocrazia cittadina ai suoi tempi decaduta e di parte guelfa, gli Alighieri; sua madre si chiamava Bella e apparteneva forse alla famiglia degli Abati, di parte ghibellina.
Nel 1267, morto l’anno precedente nella battaglia di Benevento Manfredi di Sicilia, i guelfi erano rientrati in città e una precaria pace era stata ristabilita. Frattanto però il movimento popolano – imprenditori, mercanti, banchieri, artigiani – aveva ripreso lena ed era riuscito a imporsi agli aristocratici (i “magnati”), creando nel 1282 il “Comune delle Arti”. Il governo cittadino era adesso incentrato sulla rinnovata carica dei Priori delle Arti – questi erano, infatti, già esistiti per qualche tempo in epoca podestarile, ma con un peso politico molto meno rilevante –, che ne costituivano l’esecutivo, prima in numero di tre e poi di sei, eletti ogni due mesi e affiancati da un Capitano e Difensore delle Arti, simile all’antico Capitano del Popolo. Sebbene questo regime dovesse essere in teoria rappresentativo di tutto il mondo artigiano, esso, tuttavia, fu subito monopolizzato dai “popolani grassi”, sostenuti da alcune grandi famiglie guelfe e soprattutto dai magnati di origine mercantile. In tal modo alla lotta politica cominciava ad accompagnarsene ormai un’altra, sociale, tra “magnati” e “popolani”.
Frattanto Dante, grazie alle condizioni se non ricche quanto meno agiate della sua famiglia, aveva portato a compimento la sua educazione frequentando per la gramatica (la letteratura latina) e la filosofia gli studia dei francescani di Santa Croce e dei domenicani di Santa Maria Novella, per la retorica il maestro Brunetto Latini, forse affacciandosi brevemente anche nell’università di Bologna. Si era frattanto guadagnato fama di buon rimatore nella cerchia del cosiddetto “dolce stil novo” insieme con altri poeti, tra i quali 𝐆𝐮𝐢𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐯𝐚𝐥𝐜𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐂𝐚𝐯𝐚𝐥𝐜𝐚𝐧𝐭𝐢; e aveva anche scritto audacemente un’opera mista di prosa e di poesia servendosi del volgare fiorentino, la Vita Nuova.
In essa, egli narrava dell’amore concepito e vagheggiato per una fanciulla, 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 di 𝐅𝐨𝐥𝐜𝐨 𝐏𝐨𝐫𝐭𝐢𝐧𝐚𝐫𝐢 , poi andata sposa a 𝐒𝐢𝐦𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐁𝐚𝐫𝐝𝐢. In realtà, si trattava di un rapporto immaginario: egli l’aveva fugacemente vista solo due volte, e la giovane era del resto morta precocemente. Dal canto suo, nel 1285 aveva sposato Gemma, della famiglia magnatizia dei Donati: mai granché amata, ma che gli avrebbe comunque dato quattro o cinque figli.
Il conflitto tra guelfi e ghibellini era d’altronde ripreso in tutta la Toscana: e Firenze, appoggiata dal papa (i banchieri fiorentini erano tra i principali appaltatori delle finanze pontificie) e dal nuovo sovrano di Sicilia, Carlo I d’Angiò, congiunto dei re di Francia, aveva abbracciato con decisione il partito guelfo. Troviamo l’Alighieri combattente a cavallo (“feditore”) nel giugno 1289 durante la battaglia di Campaldino, nel corso della guerra contro la coalizione ghibellina costituita da Arezzo, Pisa (pur indebolita dalla sconfitta che le avevano inflitto i Genovesi nel 1284 alla Meloria) e il vicario imperiale di Toscana Percivalle Fieschi, conte di Lavagna.
Ormai la parte guelfa fagocitava e assorbiva tutte le istituzioni politiche fiorentine, trasformandole in organi del suo predominio. L’alleanza con gli Angioini favoriva economicamente la città, il cui capitale commerciale e finanziario poté penetrare definitivamente nell’Italia meridionale rafforzando quel ceto di intraprendenti finanzieri, commercianti e imprenditori che aveva fatto le sue prime prove in campo politico con il regime del Primo Popolo. D’altronde, alcuni “popolani” si erano ormai infiltrati con abile politica di alleanze matrimoniali nell’aristocrazia più antica, tramite l’investitura cavalleresca di alcuni suoi membri con la cerimonia dell’“addobbamento”. Erano state queste caratteristiche a configurare la società propriamente “magnatizia”. La vittoria di Campaldino aveva consentito ai guelfi toscani di riprendere il controllo di quasi tutto il contado fiorentino, senese e aretino, sebbene non fosse possibile conquistare Arezzo; mentre Pisa, sotto Guido da Montefeltro, poteva appropriarsi nuovamente della parte settentrionale della Maremma, giungendo a minacciare Siena. Intanto la frattura già delineatasi in Firenze tra magnati da una parte e “popolo grasso” guidato da famiglie per molti aspetti non meno potenti dall’altra, si era andata complicando per l’emergere, nella compagine guelfa, di due fazioni: la “bianca”, che mirava a una politica moderata e possibilista nei confronti dei ghibellini, e la “nera”, fautrice al contrario di uno scontro senza quartiere e fiduciosa nell’appoggio della Curia pontificia e del re di Sicilia (che ormai, dopo i “vespri siciliani” del 1282, aveva perduto il controllo dell’isola e veniva chiamato più realisticamente “re di Napoli”, vale a dire del Meridione peninsulare).
A Firenze, la situazione interna si era aggravata. Sconfitte alcune delle proposte miranti alla creazione di un regime corporativo equilibrato, in cui tutte le Arti, anche le minori, avessero una rappresentanza paritetica, si giunse fra il gennaio e il marzo 1293 a proclamare gli “Ordinamenti di Giustizia”, che in pratica accordavano il potere alle “Arti Maggiori”, il “popolo grasso” (soprattutto banchieri e imprenditori), escludendo dalla vita pubblica una settantina delle schiatte più antiche e potenti della città e del contado.
Nel 1293 venne istituito anche il Gonfaloniere di Giustizia, che doveva dirigere il collegio dei Priori e guidare una milizia di alcune migliaia di fanti, incaricati di contrastare i magnati e di demolire le loro case, qualora infrangessero gli Ordinamenti. Ispiratore di questi fu Giano della Bella, che pure discendeva da una famiglia di stirpe consolare, ma egli commise l’errore di volersi porre alla testa degli artigiani e dei bottegai minori – la “piccola borghesia”, come potremmo definirli con un anacronismo – i quali, non senza disordini e tumulti di piazza, andavano acquistando un peso crescente anche nel priorato. Il “popolo grasso”, vincitore dei magnati, non intendeva però cedere alla massa artigiana il potere finalmente conseguito e reagì con prontezza e vigore, riuscendo nel marzo del 1295 a sconfiggere Giano, che fu per sempre esiliato, e i suoi alleati. Gli Ordinamenti di Giustizia vennero mantenuti, ma alcune delle loro primitive asprezze furono attenuate e qualche famiglia inclusa nella lista dei magnati fu fatta “di popolo”. Le numerose conquiste costituzionali ottenute dagli artigiani minori, che erano culminate nel loro accesso al priorato, furono ridimensionate o addirittura abolite e si pose un robusto freno alle loro tumultuose e a volte contraddittorie rivendicazioni politiche.
Di questo nuovo stato delle cose approfittò anche Dante, il quale nel 1295 poté iscriversi all’Arte dei medici e speziali. Da quell’anno fino al 1302 ebbe diversi uffici; tra l’altro, per alcuni mesi nel 1296 appartenne al più importante dei consigli cittadini, quello dei Cento, e, soprattutto, nel 1300, fu tra i priori. Notevole nel priorato di Dante, che aderiva alla fazione moderata dei “guelfi bianchi”, fu il provvedimento di bandire da Firenze – in seguito a un assalto dei “guelfi neri” ai consoli delle Arti, e alla reazione dei bianchi – i capi delle due fazioni; tra i bianchi era compreso Guido Cavalcanti, stretto amico di Dante. Difatti, la vittoria del Popolo non aveva indebolito la consuetudine di “parteggiare”, mentre ormai il guelfismo diventava una specie di ideologia ufficiale del Comune e tale sarebbe rimasta, anche quando i termini “guelfo” e “ghibellino” non avrebbero più avuto alcun preciso significato o sostanza politica: chiunque si opponesse alla classe dirigente fiorentina al potere veniva bollato di ghibellinismo, e con tale accusa si potevano eliminare nemici personali e concorrenti; guelfo era ora soltanto sinonimo di leale al regime, e quando altre scissioni avrebbero avuto luogo in seno alla élite di governo i dissidenti si sarebbero detti ghibellini o sarebbero stati accusati di esserlo, pur proclamandosi guelfi. Il successivo contrasto fra “bianchi” e “neri”, originato dalla rivalità fra le due famiglie magnatizie dei ricchi 𝐂𝐞𝐫𝐜𝐡𝐢 e dei più antichi 𝐃𝐨𝐧𝐚𝐭𝐢, dimostra sia la permanente influenza dei magnati, nonostante gli Ordinamenti di Giustizia, sia l’incapacità del regime popolare di porre fine alla lotta delle fazioni aristocratiche, a cui ora partecipavano con accanimento anche i “popolani”.
Fra i compiti del priorato al quale apparteneva Dante vi era quello di opporsi alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di Bonifacio VIII. Grande aristocratico, giurista e canonista di profonda competenza, dotato di un alto concetto dell’autorità papale e di se stesso, 𝐁𝐞𝐧𝐞𝐝𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐂𝐚𝐞𝐭𝐚𝐧𝐢, salito al soglio pontificio come Bonifacio VIII nel dicembre 1294 dopo il “gran rifiuto” di 𝐂𝐞𝐥𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐨 𝐕, si trovava dinanzi a un compito arduo. Il potere del pontefice era oggetto di contestazione nella stessa Roma e nei territori del “Patrimonio di San Pietro”, dove bisognava rafforzarlo; era oggetto di critiche e di passioni politiche nell’Italia divisa tra guelfi e ghibellini, e lì bisognava appoggiare i primi senza tuttavia consentire che ciò andasse a vantaggio esclusivo degli angioini e della Francia. Nel contempo era necessario risolvere la crisi del Meridione d’Italia, conteso tra angioini e aragonesi, riaffermando l’alta sovranità papale sul regno. Infine, bisognava riprendere il programma d’Innocenzo III, consistente nell’affermare l’egemonia della monarchia papale su quelle terrene. A Roma e nell’entroterra romano i grandi avversari di Bonifacio erano i Colonna; alla potente famiglia – che contava anche dei cardinali e che propugnava l’invalidità dell’elezione papale di Bonifacio in quanto irregolare – si erano appoggiati i francescani “spirituali”, che nel nuovo pontefice identificavano il più aspro nemico della loro vocazione alla povertà e al rifiuto del potere. Ma Bonifacio VIII batté i 𝐂𝐨𝐥𝐨𝐧𝐧𝐚 espugnandone nel 1298 la rocca di Palestrina e perseguitò con durezza i francescani spirituali. Riguardo alla questione siciliana il papa impose nel 1295, con il trattato di Anagni, il ritorno della Sicilia agli angioini: tuttavia, i siciliani non accettarono tale soluzione e continuarono a combattere. Ciò costrinse il papa a collegarsi più strettamente sia alla dinastia angioina sia al regno di Francia e a chiedere anche il soccorso economico dei banchieri fiorentini. Questo portò a un cambiamento negli equilibri fra i bianchi, che sostenevano una politica di cautela nei confronti del papato, e i neri, che invece appoggiavano il 𝐂𝐚𝐞𝐭𝐚𝐧𝐢 e con lui gli angioini e i francesi. Invocato dai neri, banditi dalla parte avversa, il pontefice determinò la vittoria di costoro inviando a Firenze il paciarius 𝐂𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐝𝐢 𝐕𝐚𝐥𝐨𝐢𝐬, che però gettò presto la maschera favorendo nettamente i neri: essi, con a capo Corso Donati e i suoi seguaci “sbanditi” che poterono tornare in città, la sottomisero alla loro fazione nel 1302. I bianchi e i ghibellini, che li avevano appoggiati nella speranza di vedere attenuato il loro ostracismo politico, presero a loro volta la via dell’esilio, colpiti da bandi e condanne a morte, mentre in città, come era ormai triste consuetudine, molte loro dimore venivano distrutte.
Nei confronti di Dante – appena tornato da un’ambasceria presso il papa e colto di sorpresa – venne emessa il 17 gennaio 1302 una sentenza che lo condannava per “baratteria” (corruzione) – accusa spesso usata contro gli avversari politici – a una multa, al confino e all’esclusione dagli uffici; non essendosi presentato al processo, una successiva sentenza del 10 marzo lo condannò invece all’esilio perpetuo, con minaccia di morte in caso di rientro. Cominciò dunque la peregrinazione di Dante presso varie corti dei principi italiani, nell’attesa che la situazione a Firenze mutasse.
L’umiliazione che 𝐁𝐨𝐧𝐢𝐟𝐚𝐜𝐢𝐨 𝐕𝐈𝐈𝐈 subì ad Anagni da parte dell’inviato del re di Francia, 𝐅𝐢𝐥𝐢𝐩𝐩𝐨 𝐝𝐢 𝐍𝐨𝐠𝐚𝐫𝐞𝐭, e la successiva morte del pontefice (11 ottobre 1303) liberarono Firenze e la Toscana dalla minaccia di veder messa in discussione la propria indipendenza; ma ben presto, nel luglio del 1304, falliva miseramente con la battaglia della Lastra – sulle colline a nord di Firenze – il tentativo dei “bianchi” di rientrare, con l’appoggio dei ghibellini e di una coalizione composta da Pistoia, Arezzo, Bologna e Pisa. Firenze, da parte sua, si era nuovamente schierata con la parte guelfa, in cui militavano pure Lucca e Siena, sotto la guida di Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II re di Napoli, che sarebbe di lì a poco succeduto al padre. Si delineava, nel frattempo, una nuova minaccia per la Firenze guelfa, una possibilità agli occhi di Dante, nella persona di Enrico VII di Lussemburgo, eletto imperatore nel novembre del 1308 e determinato a ristabilire l’autorità imperiale in Italia.
Enrico, ch’era stato favorito dallo stesso papa Clemente V al quale aveva promesso di organizzare una nuova crociata, prese molto sul serio il suo ufficio e, accingendosi a scendere in Italia per ricevere a Roma la corona imperiale, fece sapere ai signori e alle città italiane che sarebbe venuto non già come capo della parte ghibellina, bensì come rex pacificus, a portare la concordia e a ristabilire la giustizia. Questo sovrano di buone intenzioni non aveva però sufficiente forza militare. Dovette quindi per forza appoggiarsi ai ghibellini, che se ne servirono per i loro fini: come i Visconti a Milano, che approfittarono della venuta del sovrano per cacciare dalla città i guelfi Torriani. Contro di lui si creò quindi, immediatamente, un fronte guelfo i cui capisaldi erano Firenze e il re di Napoli Roberto d’Angiò. A Firenze si sviluppava una vera e propria propaganda politica, alimentata sia dai guelfi al governo – i quali avevano scatenato una campagna di estrema violenza contro Enrico, eccitando contro di lui le popolazioni ancor prima che mettesse piede in Toscana, allo scopo di sradicare le opposizioni interne e di conquistare ai governi comunali una saldezza mai fino ad allora ottenuta – sia dai ghibellini e dai guelfi “bianchi”, che vedevano nel giovane imperatore una sorta di Messia destinato dalla Provvidenza a ripristinare nel mondo la pace e la giustizia. Enrico giunse a Roma, dove il 29 giugno del 1312 assunse la corona imperiale: la cerimonia dovette però svolgersi in San Giovanni in Laterano, in quanto San Pietro era occupata dalla fazione guelfa guidata dalla famiglia degli Orsini. Dopo essere stato incoronato, l’imperatore risalì la penisola; Firenze gli si oppose, ed egli la minacciò di un inutile assedio, mentre Dante inviava ai suoi concittadini ribelli una durissima lettera. Successivamente Enrico si recò nella fedelissima Pisa, e da lì cercò di organizzare una spedizione contro il re di Napoli. Si mosse difatti poco dopo di nuovo verso sud: ma a Buonconvento, non lontano da Siena, si spense il 24 agosto 1313, sembra per un attacco di malaria. Svaniva con lui la dantesca illusione di un impero ecumenico.
Era frattanto maturata la nuova stagione politica, culturale e umana dell’Alighieri: quella dell’esilio. Dopo la sconfitta alla Lastra e un nuovo tentativo di ridefinire l’alleanza “biancoghibellina” durante un convegno nell’abbazia di San Godenzo, sull’Appennino tosco-romagnolo, egli si era allontanato da quella che riteneva ormai una «compagnia malvagia e scempia» e aveva preso a far «parte per se stesso». Era cominciata l’amara esperienza del suo vagare di città in città e di corte feudale in corte feudale: paradossalmente, le sue opere cominciavano a renderlo sempre più famoso ma egli era costretto a condurre una vita sempre più raminga e miserabile, accettando ospitalità non sempre generose e adempiendo saltuariamente a compiti diplomatici e burocratici. Non sempre la cronologia dei suoi spostamenti è facilmente ricostruibile, né v’è su ciò accordo fra gli studiosi. Dal 1304 al 1306 fu a Bologna; quindi fra il 1306 e il 1309 in Lunigiana presso il “guelfo nero” marchese 𝐌𝐨𝐫𝐨𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐌𝐚𝐥𝐚𝐬𝐩𝐢𝐧𝐚; passò poi in Casentino, ospite dei conti Guidi, tra i castelli di Romena e di Poppi, dove riprese a scrivere e compose un complesso trattato misto di versi e di prosa, il Convivio, mentre cominciava a creare la sua opera maggiore, quella che sarebbe poi stata chiamata la 𝐃𝐢𝐯𝐢𝐧𝐚 𝐂𝐨𝐦𝐦𝐞𝐝𝐢𝐚. Là visse la sfortunata epopea di 𝐄𝐧𝐫𝐢𝐜𝐨 𝐕𝐈𝐈, che gli ispirò alcune lettere nobilissime, profondamente accorate e sdegnose. Nel 1314, dopo la morte di Clemente V, Dante scrisse un’altra epistola diretta ai cardinali italiani esortati a soccorrere Roma, ormai priva sia del papa sia dell’imperatore, “i due soli”, affinché eleggessero un papa deciso a riportare nell’Urbe da Avignone la sede pontificia. Sappiamo che così non avvenne: le condizioni non erano favorevoli, ed è d’altronde ormai opinione comune nella storiografia che la questa fase del papato abbia favorito un assestamento e a una ridefinizione delle funzioni ecclesiali. Sia pur fra molti problemi, l’era della “cattività avignonese” pare essere tramontata. A Firenze intanto, la tragica avventura del “grande Arrigo” aveva avuto paradossalmente l’effetto di risollevare le sorti dei ghibellini toscani e di portare alla metamorfosi di quel partito. L’affermazione degli avventurieri Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e di Lucca (1313-1316), e Castruccio Castracane – che fra il 1317 e il 1328 riuscì a creare una vasta signoria comprendente Lucca, Pistoia, Luni, Volterra e Pisa, ottenendo dal nuovo imperatore Ludovico il Bavaro (eletto nel settembre 1322) anche il titolo ereditario di duca e la carica di Gonfaloniere dell’Impero, concessione senza precedenti al di qua delle Alpi –, sembrò rimettere per l’ennesima volta in causa la posizione egemonica conquistata da Firenze in Toscana. La città conobbe infatti sconfitte devastanti, come quelle di Montecatini (29 agosto 1315) e di Altopascio (23 settembre 1325), che la costrinsero a darsi di nuovo in signoria a un angioino, Carlo di Calabria. Dopo la sconfitta di Montecatini Firenze mutò in confino le condanne capitali dei meno pericolosi degli sbanditi: ma Dante non accettò una sentenza che gli avrebbe consentito di rientrare in città ma comportava l’umiliazione del riconoscimento da parte sua della sentenza di colpevolezza e il pagamento di una forte ammenda; di conseguenza venne condannato a morte in contumacia.
Non sappiamo con certezza dove il poeta abbia passato gli ultimi anni e composto sia la Commedia sia altre opere, talune molto impegnative, come il 𝐷𝑒 𝑣𝑢𝑙𝑔𝑎𝑟𝑖 𝑒𝑙𝑜𝑞𝑢𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎 e il 𝐷𝑒 𝑀𝑜𝑛𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖𝑎; incerti sono in particolare gli anni della sua residenza a Verona, che pure gli risultò tanto gradita da indurlo a dedicare al signore della città, Cangrande della Scala, la cantica del Paradiso. Almeno dal 1318 però lo sappiamo a Ravenna, di cui era signore Guido Novello da Polenta, dove morì nel 1321 e dov’è sepolto in un’arca presso il tempio di San Pier Maggiore, poi detto di San Francesco.
* storico medievista