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Un azzardo diventato un grande successo

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CULTURA
MICHELE SERRA
Ero un ragazzo – studente universitario – quando nacque la Repubblica.
La stampa quotidiana, nel mezzo dei Settanta, aveva un grande peso nella formazione dell’identità del paese, e l’uscita di un nuovo giornale era vissuta come uno spostamento ben percepibile degli equilibri culturali e politici. Non esisteva internet e non c’erano le televisioni private: altra era geologica. La Rai si occupava, spesso con buona volontà ma sempre molto istituzionalmente, di intrattenere e a volte perfino di informare il popolo; ma era soprattutto andando in edicola che ci si informava e ci si formava. E ci si schierava. Si era, in quegli anni, anche il giornale che spuntava dalla propria tasca.
Eravamo ancora – specie a Milano – sotto l’effetto dirompente che aveva avuto il Giorno, il quotidiano voluto da Enrico Mattei, nella narrazione delle cose italiane in anni in cui i grandi giornali erano come inamidati nello sforzo (vano, eppure cocciuto) di una rappresentazione paciosa e perbenista di una società in pieno tumulto. L’Italia era, tutto sommato, “poco raccontata”, e chiedeva di esserlo.
Il nuovo quotidiano di Scalfari, a partire dalla foliazione ridotta e dalla scelta di non occuparsi di cronaca e di sport, sembrava rivolgersi soprattutto alle élite, a un’opinione pubblica molto selezionata. Un’aura di radicalità liberal- borghese, quasi snob nella ostentata rinuncia ai temi del giornalismo più popolare, circonfondeva quei pochi fogli austeri, ben scritti, selettivi.
Quarant’anni dopo verrebbe voglia di dire che il successo di Repubblica quasi ne contraddice il Dna. Da prodotto “di nicchia” a giornale (anche) popolare, primatista di vendite, matrice di numerose altre testate, veicolo pubblicitario molto appetito, diffuso e letto ben al di fuori della cerchia delle classi dirigenti, del personale politico e degli intellettuali. Oppure – e al contrario – potremmo leggere la parabola fortunata e singolare di questo giornale come la smentita del pregiudizio, oggi purtroppo molto diffuso, secondo il quale qualità e quantità corrono su binari diversi. Ovvero: non sta scritto da nessuna parte che un messaggio ben temperato sia destinato a pochi, e che i molti ne siano esclusi. Se c’è qualcosa da rimpiangere, di quegli anni per altri versi niente affatto memorabili, è l’immaginifica generosità delle avanguardie, convinte che i nuovi linguaggi e le nuove idee, per quanto fuori dalle righe, potessero davvero cambiare il corso delle cose.
La Repubblica, nel suo campo d’influenza che è l’opinione pubblica italiana, ha saputo farlo. Pareva nata per disegnare “un’altra Italia”, quella laico-repubblicana sognata dalla ristretta minoranza della borghesia democratica condannata alla sua eterna carboneria, ha finito per appartenere all’Italia così com’è, diventandone un pezzo vivo e influente. Così come quarant’anni fa era del tutto naturale vivere in un’Italia senzaRepubblica, oggi sarebbe impensabile immaginare un’Italia senza Repubblica. L’azzardo di un gruppo di giornalisti che volevano cambiare punto di vista è diventato l’abitudine quotidiana di centinaia di migliaia di italiani. Se c’è una lezione che questo quarantesimo anniversario può darci, è che l’azzardo culturale e politico non è sempre destinato alla sconfitta.

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