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Quando comprai quel primo numero

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CULTURA

ALESSANDRO BARICCO
La cosa incredibile è che se mi concentro bene riesco tornare indietro alla sensazione precisa di quando avevo diciassette anni e uscì il primo numero di Repubblica e io lo comprai. È passato talmente tanto tempo che la sensazione è trasparente, se solo mi fermo a osservarla si disfa. Ma il gusto, a distanza di anni, è ancora là, intatto. Lo riassumerei così: stavo là, con quel giornale in mano, e quella cosa non era mai esistita prima. Voglio dire: non era un giornale diverso: era qualcosa che non esisteva. Le dimensioni, i titoli, la grafica, la larghezza delle colonne, quelli che ci scrivevano, il modo in cui scrivevano. Non c’era la terza pagina, c’era una specie di doppia pagina centrale. C’era un vignetta in una pagina di commenti intelligenti (una vignetta!?). Non vorrei urtare la sensibilità dei più giovani: ma devo registrare il fatto che non c’erano pagine di sport.
I titoli non c’entravano con quelli che ero abituato e leggere sui quotidiani: navigavano un po’ nel vuoto, metà piccoli metà grandi, “L’INCARICO A MORO ma la sfida è sull’economia”, sembravano degli appunti presi a una riunione, su un tovagliolino del bar. Adesso, a riprendere tra le mani quel numero 1, l’impressione è di un giornale disegnato da una art director bulgaro appena uscito da un grave lutto in famiglia: ma bisogna invece capire che allora, il 14 gennaio 1976, quei fogli invece raccontavano di gente libera, piuttosto allegra, a cui andava di reinventare tutto e non mancava la presunzione, o la follia, per pensare che sarebbero riusciti a farlo. Io, nel mio piccolo, ero così: divenne il mio giornale. (Lo sport, per anni, ho dovuto leggerlo su La Stampa, al bar).
Mi son messo anche un po’ a rileggerlo, quel mitico numero 1, e mi sono dato ragione (non mi accade così spesso come si potrebbe pensare). Nel senso che effettivamente quelli scrivevano in un modo che sembrava fatto apposta per far sbiellare un diciassettenne tipo me. L’inchiesta di Bocca sull’Innocenti me la sono riletta tutta (e sì che neanche mi ricordavo che esisteva, l’Innocenti). C’è un’intervista all’Onorevole De Martino (idem) che è sublime. Fatta da Scalfari. Già alla sesta riga è lì a parlare dei canarini che De Martino teneva in casa. Adesso, nel 2016, può accadere che parlino solo dei canarini tenuti in casa, ma ai tempi, giuro, non eravamo abituati a quelle cose lì. Era un nuovo mondo.
La prova finale del fatto che fosse un mondo irresistibile è a pagina 13. C’è un’intervista a Bernardo Bertolucci (sono le pagine della cultura). Particolare delizioso: l’intervista è fatta da Alberto Arbasino (come se vi facessero vedere una vecchia partita di tennis in cui Federer fa il raccattapalle). Ed ecco com’è l’intervista: Arbasino fa una domanda (fantastica: «Allora, com’è venuto questo Novecento?»). Segue, irragionevolmente, una risposta di centinaia di righe… Nel pezzo compaiono forse due altre domande, ma non è chiaro. Più che altro è un fluviale monologo di Bertolucci, praticamente un saggio letterario.
Erano pazzi, credetemi.
Infatti, se il mondo fosse logico, avrebbero dovuto fallire in un mesetto. E invece erano pazzi astuti, abilissimi, e forti. Ed eccoci qua. Chapeau.

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