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UNA CERTA IDEA DELL’ITALIA

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Prima


EZIO MAURO
NELLA velocità dei tempi che viviamo, quarant’anni sono il tempo di un cambiamento che supera lo scarto tra due generazioni. Sembrano infatti due Italie diverse quelle raccontate nel primo numero di questo giornale, il 14 gennaio del 1976, appena ripubblicato, e nel numero di oggi. Sono cresciute e sfiorite due Italie, una suicidata con Tangentopoli, l’altra svuotata dal ventennio berlusconiano. La terza sta faticosamente costruendo se stessa, su basi che trovano un consenso politico ristretto ma un’apatia civica diffusa.
Sono morti partiti centenari, e con loro sono appassite culture politiche che in altre parti d’Europa formano l’ossatura storica del sistema. Il Paese ha conosciuto pace e sviluppo in un dopoguerra lunghissimo, ma ha patito le stragi di Stato, la corrosione della P2, l’assassinio mafioso di Falcone e Borsellino, l’attacco del terrorismo rosso indigeno, che è riuscito a sconfiggere. Poi la caduta del Muro, la fine del secolo delle ideologie, il presunto trionfo della democrazia come unica religione superstite insieme con la rivoluzione tecnologica di Internet che ci ha portato il mondo in tasca accorciando la storia e abbattendo la geografia: e invece lo squarcio epocale dell’11 settembre 2001, le guerre, l’attacco jihadista alle democrazie. Per arrivare infine a questa età dell’incertezza con le tre piaghe d’Occidente, la sfida mortale del terrorismo islamico, la più lunga crisi economico-finanziaria dal ’29, l’ondata della disperazione migratoria che punta sull’Europa come terra della speranza e del futuro, scatenando paure e insicurezze.
Tutto sembra fuori controllo, i meccanismi democratici costruiti nel secondo Novecento per garantirci nel nostro vivere insieme deperiscono, mentre cresce una rabbia sterile contro le istituzioni, insieme con una silenziosa nuova solitudine repubblicana.
SEGUE A PAGINA 37
EPPURE la democrazia è testarda anche se consumata, e la coesione sociale tiene nonostante le disuguaglianze diventino esclusioni. Il Paese può farcela, e ce la farà.
Repubblica ha informato i suoi lettori giorno dopo giorno, come vuole la missione di un giornale. Ma è stata anche un attore culturale e non soltanto uno spettatore della vicenda italiana. Il genio di Scalfari quarant’anni fa ha cambiato il giornalismo, ma soprattutto ha scommesso su un cambiamento del Paese che avesse le sue radici nella modernizzazione, nell’Europa, nella piena agibilità di un sistema politico bloccato. Il giornale ha creduto che la sinistra italiana potesse essere un soggetto importante per questa modernizzazione, sapendo che per farlo doveva compiere la sua storia uscendo dalla corazza comunista per incrociare la cultura politica liberal- democratica incentrata sulla giustizia e sulla libertà: un azionismo di massa è stato il sogno di Repubblica, e non importa se un sogno di minoranza, pur di testimoniare per quarant’anni «una certa idea dell’Italia», secondo la formula di Piero Gobetti.
Questa avventura ha selezionato due, tre generazioni di giornalisti di prim’ordine, che si sono liberamente scelti negli anni e si sono intestati molte sfide in comune, oltre ad uno sforzo continuo di innovazione, da “Repubblica delle idee” a D, alla Domenica, a R2, a repubblica. it che è diventato il primo sito d’informazione d’Italia. Ma soprattutto ha selezionato una community di lettori che non ha uguali nel Paese, con un rapporto fortissimo con il quotidiano, a cui viene chiesto non solo di informare ma di prendere parte al discorso pubblico e alla battaglia culturale. Repubblica lo ha fatto: una battaglia laica (non a caso Scalfari è stato scelto da Papa Francesco come interlocutore nella sua “lettera a chi non crede”), riformista, europea, potremmo dire “repubblicana” nel senso francese del termine, con un sentimento di patriottismo costituzionale. Per queste ragioni, niente affatto ideologiche, ci siamo trovati a dover contrastare gli abusi di un potere legittimo quando cercava una dismisura illegittima nelle leggi ad personam, nel conflitto di interessi, nello strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso, nello strapotere economico che consentiva di comperare parlamentari a grappoli. Siamo stati spesso soli, in Italia ma non nel concerto della migliore stampa internazionale: ne valeva comunque la pena.
Abbiamo creduto in una società politica dell’alternanza, nella distinzione feconda e vitale tra i concetti di destra e sinistra e le loro proiezioni politiche. Con la speranza, che questo giornale ha sempre sollecitato, di vedere finalmente in campo una sinistra risolta, europea, moderna e occidentale (il ritardo è enorme e dunque colpevole) e una destra finalmente liberata da tentazioni cesariste, padronali, nostalgiche o xenofobe, che in Italia non c’è mai stata. Un’Italia in cui si confrontino una sinistra riformista, di governo, e un partito conservatore autenticamente liberale è il traguardo che indichiamo da decenni: oggi tanto più urgente, prima che arrivi l’onda alta del populismo antisistema che coltiva la rabbia e la disperazione senza mai riuscire a trasformarle in politica, scagliandole in una feroce gioia contro le istituzioni.
Non abbiamo mai partecipato al qualunquismo del banchetto anti-casta, convinti che la società abbia in sé risorse potenti ma sia nello stesso tempo civile e incivile, come il mondo politico, a cui in democrazia spetta comunque distribuire le carte, perché è lo strumento che è stato inventato nello Stato moderno per disciplinare il contrasto tra gli interessi legittimi in campo, in nome dell’interesse generale: tocca evidentemente al cittadino- elettore valutare come questo compito viene svolto, ma appunto con un giudizio motivato, non con un pregiudizio che aiuta solo a fare di ogni erba un fascio, smarrendo il compito fondamentale di ogni giornale e della pubblica opinione, che è la capacità di distinguere.
Abbiamo creduto nel mercato senza mai ritenerlo sciolto dalle regole della democrazia, nella convinzione che la libertà vada esercitata insieme con la responsabilità. Pensando che non la finanza ma il lavoro sia il nucleo del sistema occidentale che si forma attorno alla combinazione tra il capitalismo, il welfare state, la democrazia rappresentativa, una libera alleanza capace di dar forma ad una civiltà e di costruire quel che potremmo chiamare il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme nella crescita e nello sviluppo di questi decenni i vincenti e i perdenti della globalizzazione, in un vincolo appunto di responsabilità per il destino comune della società.
Nel sostenere queste idee che nascono dalla sua identità, Repubblica si è trovata naturalmente (e nemmeno per sua scelta) a diventare un punto di riferimento nel dibattito del Paese, come capita anche ad altri giornali.La grande banalizzazione in cui viviamo — che è uno strumento del potere, perché frantuma ogni questione rilevante restituendola alla mediocrità quotidiana di cui non vale la pena occuparsi — ha ridotto tutto questo alla semplificazione del giornale- partito. Ma tutte le volte che hanno cercato in noi un partito hanno trovato il giornale, e nient’altro. Certo un giornale che ha visto, letto e contrastato il cambio di egemonia culturale che ha investito il Paese negli ultimi vent’anni, facendo ingrigire le ragioni culturali e storiche della legittimità repubblicana, nata da quel tanto di resistenza antifascista che c’è stata in Italia: sufficiente tuttavia a rendere la democrazia in buona parte riconquistata e non interamente octroyée dagli alleati, e dunque fonte autonoma e legittima della Costituzione e delle nostre istituzioni. La nuova egemonia culturale ha aperto naturalmente la strada alla destra politica, che l’ha fissata in ideologia per vent’anni, con il contributo fattivo e interessato di una Chiesa pre-francescana tentata dall’illusione — per fortuna breve — di un Dio italiano, pronto a prendere parte alla vicenda politica spicciola in cambio di tutele legislative a un’autorità morale che stava inesorabilmente declinando.
Tutto questo ha reso l’avventura di
Repubblica appassionata e appassionante. Devo ringraziare nella stessa misura, mentre lascio la direzione, una redazione che mi ha dato una fiducia e un’amicizia di cui sono orgoglioso, i lettori che ci hanno seguiti addirittura come soci d’opera, con un legame fortissimo alla loro testata e l’Editore, il Gruppo Espresso, che con il continuo sostegno ci ha lasciato sempre la libertà di esprimere il giornalismo in cui crediamo: se abbiamo fatto degli sbagli, li abbiamo fatti da soli.
L’avventura continua sotto la guida di Mario Calabresi, giornalista di talento e di sicura onestà intellettuale, che è anche un amico per tutti noi e conosce Repubblica alla perfezione, avendo lavorato per anni in una redazione che appoggiandosi alla sua esperienza e al suo entusiasmo darà il suo meglio, come sempre. Vent’anni fa avevo scritto che dovevamo «cambiare, restando noi stessi». Succederà ancora, nel modo migliore, eRepubblica continuerà ad essere un attore di quel cambiamento di cui ha bisogno più che mai il nostro Paese.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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