31/12/2018
COMMENTI
La polemica
Sergio Rizzo
Ignazio Visco se ne lamentò in parlamento un anno fa: «Del caso Carige questa commissione poco parla… » . Aveva ragione da vendere, il governatore della Banca d’Italia. Ma lo scopo della commissione d’inchiesta sulle banche non era certo di capire che cosa stava accadendo a Genova. Il vero obiettivo: mettere alle corde lui o inchiodare Matteo Renzi in vista delle elezioni, a seconda degli interessi politici in gioco. Ecco allora che nella relazione conclusiva la questione viene liquidata nelle poche righe sufficienti a raccontare che « è stato sgominato il sistema di potere di Giovanni Berneschi ».
Passa un anno: la ex quinta banca italiana che nel 2007 capitalizzava in Borsa 6 miliardi oggi vale sì e no 80 milioni. Meno della sede di Genova. Dal 2012 al 30 settembre 2018, Carige ha accumulato perdite per 3 miliardi e 357 milioni: una catastrofe.
Vittorio Malacalza, l’ottantunenne diventato ricco come Creso vendendo ai russi le sue aziende siderurgiche, ci ha già buttato dentro 423 milioni, tutti bruciati. Così ha pensato bene di far saltare l’aumento di capitale che gliene sarebbe costati ancora 120, spianando la strada all’intervento dello Stato. Perché, nonostante il pressing della Bce per una iniezione di capitale fresco, questo potrebbe essere il destino: diventerebbe la seconda banca a tornare pubblica dopo il Monte dei Paschi di Siena. A meno che qualcuno non decida magari di fare un’Opa. In fondo, si compra tutto per un tozzo di pane. Il problema è che si comprano macerie.
La storia di Carige è il clamoroso fallimento di un’intera classe dirigente: manager o presunti tali, imprenditori e affaristi legati alla politica e politici legati a filo doppio agli affari. Una storia solo all’apparenza simile a quella di tutte le Casse di risparmio, feudi democristiani che la legge Amato avrebbe dovuto smantellare, rimasti invece in vita dietro la finzione della separazione fra banca e Fondazione. Soltanto, non più democristiani: la Dc era morta. In Liguria, però, il copione prende una piega particolare. Nel 2003 arriva al timone della Cassa di risparmio di Genova e Imperia un certo Berneschi. È l’epoca in cui in Liguria spadroneggiano gli ex dc tramutati in berlusconiani. A ponente Claudio Scajola, ministro dell’Interno scivolato sul « rompicoglioni » affibbiato al defunto Marco Biagi. Il legame fra la banca per metà imperiese e l’imperiese famiglia Scajola è solidissimo e il fratello Alessandro, ex deputato Dc, si becca la vicepresidenza. A levante, invece, Luigi Grillo, presidente della commissione Lavori pubblici del Senato. Con la Carige di Berneschi progetta di fare la Gronda di Levante. Un passante autostradale che dovrebbe costruire la Ila, la società del suo amico Vito Bonsignore, aspirante concessionario autostradale di lì a poco europarlamentare Udc. Amico e già collega di partito e governo: entrambi ex dc, ed entrambi sottosegretari al Bilancio del primo governo Amato.
Sono anni ruggenti, con Berneschi che cova il disegno di costruire un grande gruppo bancario e assicurativo. Ma quando arriva la crisi finanziaria saltano fuori tutte le magagne di una gestione assai spregiudicata. Dopo dieci anni, gli ispettori della Banca d’Italia mettono fine al suo regno, e c’è solo da chiedersi perché ci abbiano messo tanto. Il loro giudizio in una scala da 1 (il migliore) a 6 (il peggiore), è 6. «Una banca decotta», dice ai giudici l’ispettore Vincenzo Cantarella. Nel rapporto si parla dei crediti facili concessi fra gli altri all’industriale Enrico Preziosi, proprietario del Genoa Calcio, e all’immobiliarista Ernesto Cavallini. Non basta. La Guardia di Finanza scopre certi affarucci del ramo assicurativo: si compravano immobili a prezzi gonfiati e le plusvalenze venivano parcheggiate in Svizzera o Lussemburgo. Il tutto, secondo la testimonianza di un dirigente dell’Isvap, l’Authority incaricata di vigilare sulle compagnie assicurative, godendo perfino della sua protezione. Al processo Berneschi attacca Visco: «Sto pagando per la mia posizione contro la Banca d’Italia » . Ma questo non gli evita una condanna a 8 anni e 7 mesi. Oltre a un rinvio a giudizio per ostacolo alla Vigilanza, insieme a una selva di ex dirigenti e amministratori già multati da Bankitalia. Per esempio, il vicepresidente Alessandro Scajola e il consigliere di amministrazione Luca Bonsignore: sì, proprio il figlio di quel Vito Bonsignore che doveva fare la Gronda di Levante per intercessione del senatore Grillo e grazie al sostegno della banca di Berneschi. Il quale era presidente di Carige e della società autostradale di Bonsignore. Mentre Bonsignore era a sua volta azionista della Carige attraverso la Gefip. Con quella società l’eurodeputato Udc aveva partecipato alla scalata Antonveneta comprando 2,7 milioni di azioni cedute poi al finanziere Emilio Gnutti, supporter dello scalatore Gianpiero Fiorani.
Ed è superfluo ricordare, in questo gioco di intrecci, come nella stagione delle scalate parallele all’Antonveneta e alla Bnl, che fruttò a Bonsignore una sontuosa plusvalenza di 180 milioni, fosse invischiato anche il senatore Grillo, poi assolto in appello al relativo processo. Quanto a Fiorani, nella sua seconda vita ora amministra le attività immobiliari di Gabriele Volpi. Che non è uno qualsiasi in questa storia, bensì l’avversario di Malacalza nella battaglia per conquistare Carige. Non da solo, beninteso. È alleato di Raffaele Mincione: imprenditore che si è avvalso nel recente passato, per una vicenda non collegata a questa, dei servigi di un certo avvocato Giuseppe Conte. Prima, naturalmente, che costui diventasse il presidente del Consiglio sul cui tavolo è piovuta ora la supplica dei piccoli azionisti di Carige. Il cerchio, sosterrebbero i dietrologi, si potrebbe chiudere qui. Con un piccolo corollario: chi pensa che la tempesta abbia spazzato via i vecchi assetti di potere ha preso un granchio. Claudio Scajola è sindaco di Imperia. I cittadini l’hanno rivotato nonostante scivoloni, case al Colosseo finite in prescrizione e inchieste giudiziarie pendenti. A Genova, invece, c’è nella giunta regionale di Giovanni Toti l’assessore Marco Scajola. È il figlio di Alessandro. Ed è qui, davvero, che si chiude il cerchio.