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Addio George Bush sr simbolo della destra tradizionalista della vecchia America

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2/12/2018
MONDO
Il personaggio
L’ex presidente

VITTORIO ZUCCONI,
WASHINGTON
In appena un quarto di secolo, fra l’uscita dalla Casa Bianca di George Bush il Vecchio nel 1993 e l’ingresso di Donald J. Trump nel 2016 si consuma la parabola della Destra americana dall’internazionalismo prodotto dalla guerra al provincialismo isolazionista sconfitto dalla pace.
Con "Poppy", come in casa Bush chiamavano l’ex presidente scomparso ieri a 94 anni, se ne va una concezione moderata, tradizionalista, quasi aristocratica del conservatorismo americano spazzato via dall’uragano populista e villano di Trump. I Bush sono, e sono stati per decenni, molto ricchi, ma il pensiero d’innalzare il proprio nome sulla cima di grattacieli in lettere dorate li avrebbe fatti svenire, quanto quella di scatenare da soli una guerra commerciale.
Era l’ultimo campione della Great Generation, la grande generazione che vinse, non soltanto per se stessa, il duello mortale contro l’Asse del Male e poi si sentì abbastanza sicura di sé per accettare la Cina Comunista nel concerto delle nazioni. Non a caso proprio lui fu il primo rappresentante ufficiale degli Stati Uniti a Pechino. "Poppy"è stato l’irripetibile incarnazione di quella aristocrazia bianca, protestante, anglosassone, con radici profonde più dell’esistenza degli Stati Uniti e con lontane parentele con le famiglie reali inglesi che non doveva nascondere il proprio privilegio dietro l’esagitazione demagogica.
«Meno volte userai il pronome "io" e migliore sarai», gli aveva insegnato Dorothy, la madre. Ma le fortune famigliari dei Bush, una dinastia che ormai largamente oltrepassa quella dei Kennedy avendo prodotto ben due presidenti, e due governatori di stati, che possono tracciare la propria genealogia fino al reverendo emigrato dall’Inghilterra nella seconda metà del ’600, e vantano cuginanze di 17° grado con il futuro re William, risalgono tutte alla Costa Atlantica, non al petrolio che lui trovò a Odessa, nel Texas.
Fu tra il Vermont e il New Hampshire, dalla bottega di fabbroferraio aperta dal figlio del reverendo patriarca fino alla spregiudicatezza finanziaria del padre, Prescott Bush, a Wall Street, che la dinastia sarebbe prosperata. Poppy era nato «con il cucchiaio d’argento in bocca», come si dice dei figli benedetti dal Dio del dollaro, come Trump ereditiere delle fortune immobiliari del padre, accolto per meriti famigliari nei migliori licei e poi a Yale.
Addestrato come aviatore di Marina e divenuto il più giovane tenente pilota di tutta la flotta, Bush fu abbattuto dai caccia giapponesi sopra l’isolottlass="articleTexts" style="font-family: Times; font-size: 19px; line-height: 25px; margin: 0px 30px; padding: 15px 0px 80px; text-align: justify; width: 1038px;">
WASHINGTON
In appena un quarto di secolo, fra l’uscita dalla Casa Bianca di George Bush il Vecchio nel 1993 e l’ingresso di Donald J.
Trump nel 2016 si consuma la parabola della Destra americana dall’internazionalismo prodotto dalla guerra al provincialismo isolazionista sconfitto dalla pace.
Con "Poppy", come in casa Bush chiamavano l’ex presidente scomparso ieri a 94 anni, se ne va una concezione moderata, tradizionalista, quasi aristocratica del conservatorismo americano spazzato via dall’uragano populista e villano di Trump. I Bush sono, e sono stati per decenni, molto ricchi, ma il pensiero d’innalzare il proprio nome sulla cima di grattacieli in lettere dorate li avrebbe fatti svenire, quanto quella di scatenare da soli una guerra commerciale.
Era l’ultimo campione della Great Generation, la grande generazione che vinse, non soltanto per se stessa, il duello mortale contro l’Asse delass="articleTexts" style="font-family: Times; font-size: 19px; line-height: 25px; margin: 0px 30px; padding: 15px 0px 80px; text-align: justify; width:;">
WASHINGTON
In appena un quarto di secolo, fra l’uscita dalla Casa Bianca di George Bush il Vecchio nel 1993 e l’ingresso di Donald J.
Trump nel 2016 si consuma la parabola della Destra americana dall’internazionalismo prodotto dalla guerra al provincialismo isolazionista sconfitto dalla pace.
Con "Poppy", come in casa Bush chiamavano l’ex presidente scomparso ieri a 94 anni, se ne va una concezione moderata, tradizionalista, quasi aristocratica del conservatorismo americano spazzato via dall’uragano populista e villano di Trump. I Bush sono, e sono stati per decenni, molto ricchi, ma il pensiero d’innalzare il proprio nome sulla cima di grattacieli in lettere dorate li avrebbe fatti svenire, quanto quella di scatenare da soli una guerra commerciale.
Era l’ultimo campione della Great Generation, la grande generazione che vinse, non soltanto per se stessa, il duello mortale contro l’Asse del Male e poi si sentì abbastanza sicura di sé per accettare la Cina Comunista nel concerto delle nazioni. Non a caso proprio lui fu il primo rappresentante ufficiale degli Stati Uniti a Pechino. "Poppy"è stato l’irripetibile incarnazione di quella aristocrazia bianca, protestante, anglosassone, con radici profonde più dell’esistenza degli Stati Uniti e con lontane parentele con le famiglie reali inglesi che non doveva nascondere il proprio privilegio dietro l’esagitazione demagogica.
«Meno volte userai il pronome "io" e migliore sarai», gli aveva insegnato Dorothy, la madre. Ma le fortune famigliari dei Bush, una dinastia che ormai largamente oltrepassa quella dei Kennedy avendo prodotto ben due presidenti, e due governatori di stati, che possono tracciare la propria genealogia fino al reverendo emigrato dall’Inghilterra nella seconda metà del ’600, e vantano cuginanze di 17° grado con il futuro re William, risalgono tutte alla Costa Atlantica, non al petrolio che lui trovò a Odessa, nel Texas.
Fu tra il Vermont e il New Hampshire, dalla bottega di fabbroferraio aperta dal figlio del reverendo patriarca fino alla spregiudicatezza finanziaria del padre, Prescott Bush, a Wall Street, che la dinastia sarebbe prosperata. Poppy era nato «con il cucchiaio d’argento in bocca», come si dice dei figli benedetti dal Dio del dollaro, come Trump ereditiere delle fortune immobiliari del padre, accolto per meriti famigliari nei migliori licei e poi a Yale.
Addestrato come aviatore di Marina e divenuto il più giovane tenente pilota di tutta la flotta, Bush fu abbattuto dai caccia giapponesi sopra l’isolotto di Chichi-jima, nel Pacifico, e miracolosamente ripescato da un sottomarino americano Approfittò della licenza seguita a quel naufragio per sposare la ragazza che aveva incontrato a un ballo di società prima di andare al fronte, Barbara Pierce. La donna che sarebbe stata sua moglie per 72 anni e che l’ha preceduto nella morte.
Il solo pensiero di aggirare la leva con gli strumenti dello studio o con la minuscola imperfezione a un dito del piede che permise a Trump di schivare il Vietnam, avrebbe inorridito una famiglia dove si predicava la coniugazione — molto calvinista — fra l’esercizio del dovere e il successo, per il momento terrestre. Il vecchio Bush era establishment nel distillato più puro, quell’establishment che non avrebbe mai accolto Donald Trump, sempre visto come un esibizionista sbruffone, un’esclusione che spiega e alimenta la rabbia del Presidente in carica, da lui mimetizzata e strumentalizzata come "rabbia popolare". Pessimo oratore, impaziente ascoltatore, sarebbe stato crocefisso alle sue leggendarie gaffe. La sua occhiata nervosa all’orologio al polso, durante un dibattito contro il seducente, ma verbosissimo Bill Clinton, fu colta dalle telecamere, che lo trafissero.
Si era preso del wimp del mollaccione, ma non lo era affatto, un wimp. Mentre tutti i repubblicani fuggivano da Richard Nixon come da un untore nei primi Anni ’70, Bush, senatore, accettò la presidenza del partito, tra gli sguardi di condoglianze dei colleghi. Non esitò ad aumentare le tasse, dopo avere giurato di non farlo, per non sfasciare il bilancio nazionale sconquassato da Reagan, pur sapendo che quella decisione gli sarebbe costata la Casa Bianca.
E quando, nell’agosto del 1990, Saddam Hussein credette di potersi annettere impunemente il Kuwait seppe costruire una coalizione globale, paesi arabi inclusi, che diede alla "Tempesta nel Deserto" quella rispettabilità e legittimità internazionale che l’avventurismo della "Coalizione dei Volenterosi" imbastita dal figlio George W. per invadere l’Iraq non avrebbe mai avuto.
Alla luce di quello che il Partito Repubblicano americano è diventato, occupando le praterie di rancore, di razzismo e di collera aperti dai Democratici, in lui c’è il rimpianto di un tempo di individui privilegiati, ma non egoisti, potentissimi, ma non prepotenti, forti, ma non arroganti. Poppy perse le elezioni contro Clinton per l’enorme fetta di voti conservatori portati via dagli Indipendenti di Ross Perot, e questo dopo avere conosciuto un indice di approvazione mai raggiunto prima o dopo, l’89 per cento. Si ritirò con il consueto aplomb, a Houston, non nella più sfacciata Dallas, dove ora vive George Figlio, concedendosi soltanto qualche bravata pubblica, come il lancio con il paracadute per il novantesimo compleanno.
Se ne è andato chiuso nel pudore del potere e dei propri sentimenti al punto di non avere mai voluto rivelare di avere portato al collo per cinquant’anni una medaglietta con una semplice scritta: "Per amore di Robin", la sua prima figlia, uccisa dalla leucemia a quattro anni. Con la sua Great Generation aveva costruito e preservato quell’America che ora Trump cerca, con diligente incoscienza, di demolire.
l Male e poi si sentì abbastanza sicura di sé per accettare la Cina Comunista nel concerto delle nazioni. Non a caso proprio lui fu il primo rappresentante ufficiale degli Stati Uniti a Pechino. "Poppy"è stato l’irripetibile incarnazione di quella aristocrazia bianca, protestante, anglosassone, con radici profonde più dell’esistenza degli Stati Uniti e con lontane parentele con le famiglie reali inglesi che non doveva nascondere il proprio privilegio dietro l’esagitazione demagogica.
«Meno volte userai il pronome "io" e migliore sarai», gli aveva insegnato Dorothy, la madre. Ma le fortune famigliari dei Bush, una dinastia che ormai largamente oltrepassa quella dei Kennedy avendo prodotto ben due presidenti, e due governatori di stati, che possono tracciare la propria genealogia fino al reverendo emigrato dall’Inghilterra nella seconda metà del ’600, e vantano cuginanze di 17° grado con il futuro re William, risalgono tutte alla Costa Atlantica, non al petrolio che lui trovò a Odessa, nel Texas.
Fu tra il Vermont e il New Hampshire, dalla bottega di fabbroferraio aperta dal figlio del reverendo patriarca fino alla spregiudicatezza finanziaria del padre, Prescott Bush, a Wall Street, che la dinastia sarebbe prosperata. Poppy era nato «con il cucchiaio d’argento in bocca», come si dice dei figli benedetti dal Dio del dollaro, come Trump ereditiere delle fortune immobiliari del padre, accolto per meriti famigliari nei migliori licei e poi a Yale.
Addestrato come aviatore di Marina e divenuto il più giovane tenente pilota di tutta la flotta, Bush fu abbattuto dai caccia giapponesi sopra l’isolotto di Chichi-jima, nel Pacifico, e miracolosamente ripescato da un sottomarino americano Approfittò della licenza seguita a quel naufragio per sposare la ragazza che aveva incontrato a un ballo di società prima di andare al fronte, Barbara Pierce. La donna che sarebbe stata sua moglie per 72 anni e che l’ha preceduto nella morte.
Il solo pensiero di aggirare la leva con gli strumenti dello studio o con la minuscola imperfezione a un dito del piede che permise a Trump di schivare il Vietnam, avrebbe inorridito una famiglia dove si predicava la coniugazione — molto calvinista — fra l’esercizio del dovere e il successo, per il momento terrestre. Il vecchio Bush era establishment nel distillato più puro, quell’establishment che non avrebbe mai accolto Donald Trump, sempre visto come un esibizionista sbruffone, un’esclusione che spiega e alimenta la rabbia del Presidente in carica, da lui mimetizzata e strumentalizzata come "rabbia popolare". Pessimo oratore, impaziente ascoltatore, sarebbe stato crocefisso alle sue leggendarie gaffe. La sua occhiata nervosa all’orologio al polso, durante un dibattito contro il seducente, ma verbosissimo Bill Clinton, fu colta dalle telecamere, che lo trafissero.
Si era preso del wimp del mollaccione, ma non lo era affatto, un wimp. Mentre tutti i repubblicani fuggivano da Richard Nixon come da un untore nei primi Anni ’70, Bush, senatore, accettò la presidenza del partito, tra gli sguardi di condoglianze dei colleghi. Non esitò ad aumentare le tasse, dopo avere giurato di non farlo, per non sfasciare il bilancio nazionale sconquassato da Reagan, pur sapendo che quella decisione gli sarebbe costata la Casa Bianca.
E quando, nell’agosto del 1990, Saddam Hussein credette di potersi annettere impunemente il Kuwait seppe costruire una coalizione globale, paesi arabi inclusi, che diede alla "Tempesta nel Deserto" quella rispettabilità e legittimità internazionale che l’avventurismo della "Coalizione dei Volenterosi" imbastita dal figlio George W. per invadere l’Iraq non avrebbe mai avuto.
Alla luce di quello che il Partito Repubblicano americano è diventato, occupando le praterie di rancore, di razzismo e di collera aperti dai Democratici, in lui c’è il rimpianto di un tempo di individui privilegiati, ma non egoisti, potentissimi, ma non prepotenti, forti, ma non arroganti. Poppy perse le elezioni contro Clinton per l’enorme fetta di voti conservatori portati via dagli Indipendenti di Ross Perot, e questo dopo avere conosciuto un indice di approvazione mai raggiunto prima o dopo, l’89 per cento. Si ritirò con il consueto aplomb, a Houston, non nella più sfacciata Dallas, dove ora vive George Figlio, concedendosi soltanto qualche bravata pubblica, come il lancio con il paracadute per il novantesimo compleanno.
Se ne è andato chiuso nel pudore del potere e dei propri sentimenti al punto di non avere mai voluto rivelare di avere portato al collo per cinquant’anni una medaglietta con una semplice scritta: "Per amore di Robin", la sua prima figlia, uccisa dalla leucemia a quattro anni. Con la sua Great Generation aveva costruito e preservato quell’America che ora Trump cerca, con diligente incoscienza, di demolire.
o di Chichi-jima, nel Pacifico, e miracolosamente ripescato da un sottomarino americano Approfittò della licenza seguita a quel naufragio per sposare la ragazza che aveva incontrato a un ballo di società prima di andare al fronte, Barbara Pierce. La donna che sarebbe stata sua moglie per 72 anni e che l’ha preceduto nella morte.
Il solo pensiero di aggirare la leva con gli strumenti dello studio o con la minuscola imperfezione a un dito del piede che permise a Trump di schivare il Vietnam, avrebbe inorridito una famiglia dove si predicava la coniugazione — molto calvinista — fra l’esercizio del dovere e il successo, per il momento terrestre. Il vecchio Bush era establishment nel distillato più puro, quell’establishment che non avrebbe mai accolto Donald Trump, sempre visto come un esibizionista sbruffone, un’esclusione che spiega e alimenta la rabbia del Presidente in carica, da lui mimetizzata e strumentalizzata come "rabbia popolare". Pessimo oratore, impaziente ascoltatore, sarebbe stato crocefisso alle sue leggendarie gaffe. La sua occhiata nervosa all’orologio al polso, durante un dibattito contro il seducente, ma verbosissimo Bill Clinton, fu colta dalle telecamere, che lo trafissero.
Si era preso del wimp del mollaccione, ma non lo era affatto, un wimp. Mentre tutti i repubblicani fuggivano da Richard Nixon come da un untore nei primi Anni ’70, Bush, senatore, accettò la presidenza del partito, tra gli sguardi di condoglianze dei colleghi. Non esitò ad aumentare le tasse, dopo avere giurato di non farlo, per non sfasciare il bilancio nazionale sconquassato da Reagan, pur sapendo che quella decisione gli sarebbe costata la Casa Bianca.
E quando, nell’agosto del 1990, Saddam Hussein credette di potersi annettere impunemente il Kuwait seppe costruire una coalizione globale, paesi arabi inclusi, che diede alla "Tempesta nel Deserto" quella rispettabilità e legittimità internazionale che l’avventurismo della "Coalizione dei Volenterosi" imbastita dal figlio George W. per invadere l’Iraq non avrebbe mai avuto.
Alla luce di quello che il Partito Repubblicano americano è diventato, occupando le praterie di rancore, di razzismo e di collera aperti dai Democratici, in lui c’è il rimpianto di un tempo di individui privilegiati, ma non egoisti, potentissimi, ma non prepotenti, forti, ma non arroganti. Poppy perse le elezioni contro Clinton per l’enorme fetta di voti conservatori portati via dagli Indipendenti di Ross Perot, e questo dopo avere conosciuto un indice di approvazione mai raggiunto prima o dopo, l’89 per cento. Si ritirò con il consueto aplomb, a Houston, non nella più sfacciata Dallas, dove ora vive George Figlio, concedendosi soltanto qualche bravata pubblica, come il lancio con il paracadute per il novantesimo compleanno.
Se ne è andato chiuso nel pudore del potere e dei propri sentimenti al punto di non avere mai voluto rivelare di avere portato al collo per cinquant’anni una medaglietta con una semplice scritta: "Per amore di Robin", la sua prima figlia, uccisa dalla leucemia a quattro anni. Con la sua Great Generation aveva costruito e preservato quell’America che ora Trump cerca, con diligente incoscienza, di demolire.

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