14/11/2018
COMMENTI
Il commento
Massimo Giannini
Ma sì, ha ragione Tria: «Il tasso di crescita non è negoziabile», tuona il nostro mite Don Abbondio trasformato suo malgrado nel generale Cadorna. Difendiamola fino alla morte, questa linea del Piave dell’1,5 per cento.
Lo considerano un folle numero al lotto la Commissione Ue e il Fondo monetario, la Bce e le agenzie di rating, la Banca d’Italia e l’Istat, l’Ufficio parlamentare di bilancio e la Corte dei conti, i mercati finanziari e i mercati rionali.
«Me ne frego», rispondono sprezzanti i gemelli del deficit Salvini e Di Maio (insieme al povero ministro del Tesoro ormai preso in ostaggio). Sono tutti «sciacalli e puttane», che nel trucido ciclo pentaleghista hanno preso il posto dei «gufi e rosiconi» dell’evo renziano.
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Dunque, questo rispondiamo alla Perfida Albione accasata a Bruxelles: la manovra non cambia. È una minestrina tiepida, perché non curerà uno solo dei mali di un Paese ammorbato. Ma purtroppo è anche rancida, perché ci costerà un’inevitabile procedura d’infrazione europea per debito eccessivo e un probabile rialzo dello spread. Gli apprendisti stregoni che l’hanno cucinata nel grande calderone del «contratto di governo » la esaltano alla stregua di un New Deal rooseveltiano. Purtroppo è l’esatto contrario: un pasticcio sudamericano, con tanta spesa pubblica improduttiva ( 22 miliardi) e poca leva fiscale redistributiva (13 miliardi). Il problema non è il troppo disavanzo, benché scaricato come sempre su figli e nipoti: il deficit non sarebbe uno scandalo in sé, se servisse a finanziare un serio piano di sviluppo. Il problema è la sua inutilità: lo sbilancio è tutto al servizio della doppia cambiale elettorale in scadenza prima del voto europeo, cioè reddito di cittadinanza e quota 100. Due feticci ideologici, spacciati per prodigi economici.
Al netto del persistente caos attuativo ( su bancomat o su carta prepagata? Su conto corrente o in contanti?) il reddito di cittadinanza costa 9 miliardi ma avrà un impatto quasi nullo sul Pil « pari allo 0,2% rispetto allo scenario base» (lo dice l’Istat, prostituto anche lui). La metà dei 5 milioni di potenziali beneficiari sta al Sud, nel 48,2% dei casi ha solo la licenza media e dovrebbe trovare lavoro grazie ai mitici centri per l’impiego: peccato che nel 2017 solo il 2% dei disoccupati italiani ha trovato un lavoro grazie a quei baracconi (lo dice la Banca d’Italia, meretrice pure lei).
Al netto della fiera delle promesse da campagna elettorale (Salvini diceva «al primo Consiglio dei ministri porterò il decreto che abolisce la Fornero » ) la famosa quota 100 è un mezzo bluff. Per i pochi temerari che ne approfitteranno l’assegno pensionistico sarà decurtato fino al 34%, per di più col divieto di fare altri lavoretti ( ed è una fortuna, perché se i teorici beneficiari andassero in pensione tutti insieme la spesa previdenziale esploderebbe di 13 miliardi in un anno secondo l’Upb, “puttano” a sua volta). Completano il quadro la mancetta della finta Flat Tax sulle piccole imprese (che con l’abrogazione dell’Ace e la mancata proroga del maxi-ammortamento comporteranno «un aggravio medio di imposta pari al 2,1%» secondo l’Istat) e la manciata di investimenti pubblici per 3,5 miliardi (il cui impatto sul Pil è cifrato in un irrilevante 0,3% dal Tesoro).
Risultato: con questi numeri e questi ingredienti raggiungere gli obiettivi di crescita che Tria considera non negoziabili « sarà un miracolo » . Non lo scrivono i «pennivendoli sui giornaloni», lo sostiene il presidente dell’Istat Maurizio Franzini. Vale la pena dichiarare guerra totale all’Europa, in nome di questa informe Cosa Gialloverde, che non parla ai ceti produttivi e non dà nulla ai giovani, anche se garantisce un sussidio ai poveri e un condono ai ladri? Vale la pena morire per Grillo che attacca i « borghesucci » dalla tolda del suo yacht, o per Salvini che spiana i migranti a bordo della sua ruspa? Col metro sensato dell’economia la risposta è ovviamente no. La «manovra del popolo» la pagherà il popolo, oggi con un aumento dei tassi sui mutui, domani magari con una bella patrimoniale. Col metro falsato della politica la risposta è probabilmente sì. Questo governo durerà solo un anno: Salvini e Di Maio lo sanno e con la scelta di rompere con Bruxelles lo confermano ( non a caso le clausole di salvaguardia sull’Iva sono sospese solo per il 2019, mentre riscattano nel biennio successivo).
Nella corsa alle elezioni della prossima primavera, l’Europa tecnocratica è il nemico perfetto dell’Italia Sovranista, che potrà gridare al mondo “non ci hanno fatto governare”. Un azzardo irresponsabile, visto che nel frattempo possono andare in fumo i risparmi delle famiglie. Ma è vero anche il contrario: l’Italia Sovranista è a sua volta il nemico perfetto dell’Europa tecnocratica. Lo teorizza Steve Bannon: nel laboratorio tricolore incuba un nuovo Frankenstein Populista, di destra più o meno radicale. Dopo aver concesso 40 miliardi di flessibilità ai governi Letta- Renzi- Gentiloni, ora la Commissione non fa più sconti anche per uccidere in culla quel “ mostro”, che potrebbe contaminare l’intera Unione. Una strategia pericolosa anche questa, perché per eterogenesi dei fini può invece fornirgli altra linfa vitale. In tutti e due gli scenari, siamo messi maluccio. Se vince l’Europa Tecnocratica, rischiamo la Troika in casa per i prossimi tre anni. Se vince l’Italia Sovranista, rischiamo Frankenstein a Palazzo Chigi per i prossimi quindici. Decidete voi cosa è meglio.