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Lo Stato e la mafia dopo Riina

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Prima

L’erede sarà un boss emergente o un “americano”. Caselli: “Quella Cosa nostra è finita, il nemico è la ’ndrangheta” Intervista a Minniti: “I politici devono firmare un patto di civiltà, non accettiamo mai più il voto delle cosche”
ATTILIO BOLZONI
SARÀ la mafia stessa a dirci chi sarà il suo nuovo capo.
Al momento giusto ce lo farà sapere, forse con qualche morto per strada o forse con un boss che si “butterà” latitante di sua volontà. Così, da un giorno all’altro, senza conti con la giustizia da regolare. Un boss in libertà che sceglierà la clandestinità. Per governare in segreto la sua società segreta. Un sacrificio per la causa. Oggi si sta aprendo una nuova epoca mafiosa.
La Cosa nostra è pronta alle sue elezioni più importanti dalle 3.37 di ieri 17 novembre 2017, un venerdì per niente nero per la mafia siciliana che finalmente si è liberata di quel “pazzo” di Totò Riina che con la guerra allo Stato l’ha portata verso la rovina.
SEGUE ALLE PAGINE 2 E 3
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ritratti da Tony Gentile nella foto scattata il 27 marzo del ‘92 GRISERI, PALAZZOLO, ZINITI DA PAGINA 2 A PAGINA 7
FOTO: © TONY GENTILE
IL NUOVO capo dei capi sarà il capo di tutti. Non solo di Palermo. C’è anche Agrigento, c’è Trapani, c’è Caltanissetta, c’è soprattutto Catania con i suoi immensi patrimoni nascosti. La Cupola dovrà rappresentare tutte le province e tutte le fazioni, falchi e colombe, detenuti e scarcerati, ricchi e poveri, giovani e vecchi.
Di sicuro non sceglieranno Matteo Messina Denaro, un trapanese che “non unisce” e che si è fatto per troppo tempo soltanto gli affari suoi. Di sicuro Corleone — per tutti i guai che ha portato all’organizzazione — sarà cancellata dalle mappe geografiche mafiose anche se circolano certi voci su parenti stretti dei Riina. Di sicuro sono tornati gli “scappati”, gli Inzerillo e i Di Maggio, quei boss riparati negli States e sopravvissuti allo scontro infuocato degli anni ‘80 e che vogliono avere voce in capitolo adesso che lo “zio Totò” non c’è più. «Finché c’è lui vivo, non si vede luce», sussurravano fra loro i Capizzi di Villagrazia già nel 2008 mentre tentavano di ricostituire il “parlamentino” mafioso e venivano intercettati e catturati dai carabinieri.
La Cupola non si riunisce più dal 15 gennaio del 1993 — giorno del misteriosissimo arresto di Totò Riina — e oggi c’è una mafia fatta da tanti “partiti”, maggioranze che si compongono e si scompongono, se sarà guerra o pace lo vedremo nei prossimi mesi. Può accadere di tutto.
Come sceglieranno il capo dei capi? La Cupola di Palermo come sempre avrà più peso sul resto della Sicilia.
Ci sono tre nomi che girano più di altri in questo toto-mafia palermitano. Uno è quello di Giuseppe Guttadauro, ex aiuto primario di chirurgia all’ospedale Civico, originario del quartiere Brancaccio, un cervello fino che una volta fu avvertito persino dall’ex governatore Totò Cuffaro (appena tornato a far politica) che qualcuno aveva piazzato delle miscrospie nel suo salotto. Guttadauro vive a Roma, vicino alla stazione Ostiense. Fa volontariato in un’associazione, organizza cene nella sua bella casa, incontra tanti personaggi. E’ libero dal 2012.
Il secondo della lista è Gaetano Scotto, boss della borgata dell’Arenella, mafioso con tante entrature nei “servizi”. Ogni mattina passeggia tranquillo fra i vicoli che portano alla vecchia tonnara, attualmente è indagato per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino ucciso nell’estate del 1989. È libero dal 2016.
Il terzo accreditato come possibile nuovo capo si chiama Giovanni Grizzaffi, è di Corleone ed è nipote di Totò Riina. Si è fatto quasi un quarto di secolo di carcere e ha quasi settant’anni. È libero dal luglio scorso. La mafia del paese punta su di lui per continuare la saga dei Corleonesi, ma i boss di Palermo non ne vogliono sapere di ritrovarsi una fotocopia del vecchio Riina fra i piedi.
Poi ci sono mafiosi meno conosciuti ma che hanno preso il controllo dei “mandamenti” a Palermo. Sono loro i rappresentanti di quelle strutture criminali che dovranno prima riunirsi, dare forma alla Cupola e poi eleggere il capo. Ogni quartiere ha già il suo referente, come ha scritto il nostro Salvo Palazzolo sulle pagine di Repubblica Palermo. Alla Noce c’è Francesco Sciarratta, Vincenzo Di Maio è all’Acquasanta, Salvatore Sorrentino ai Pagliarelli, Massimo Mulè a Porta Nuova, Angelo Vinchiaturo a Brancaccio, Gaspare Parisi al Borgo Vecchio, Giuseppe Serio a Tommaso Natale, Filippo Adelfio a Villagrazia.
Sono i “colonnelli” di quel che è rimasto dell’esercito di Cosa nostra dopo la repressione poliziesca giudiziaria scatenata dal delirio di Totò Riina. Saranno loro a inventarsi un futuro.
In qualche mandamento c’è già stata qualche “ammazzatina”. Apparentemente piccoli regolamenti di conti. Come quello pagato da Giuseppe Dainotti, assassinato perché si allargava troppo. Il dato significativo di questo omicidio non è l’esecuzione del mafioso ma “quando” è avvenuta. Il 22 di maggio scorso, il giorno prima delle commemorazioni per il venticinquesimo anniversario della strage di Capaci con tutto lo Stato — il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Senato Grasso in testa — in arrivo a Palermo.
La scelta di sparare proprio alla vigilia delle celebrazioni è stata come un “avvertimento”, come se una fazione di mafia avesse voluto far sapere all’altra che sono tempi an- cora buoni per spargere sangue. Un clamore che, lì dentro, non è piaciuto a tutti. Certi equilibri instabili prima o poi si faranno sentire nella mafia di Palermo.
A meno che i capi mandamento non trovino l’uomo giusto che possa mettere tutti d’accordo, un vero capo. Uno capace di amministrare le finanze dell’organizzazione e redimere contrasti, uno in grado di “ragionare” e trascinare fuori dalla crisi economica e d’identità — dopo la sciagurata gestione dei Corleonesi — la loro Cosa nostra. Uno così non può fare il capo né dal carcere né da casa, intesa come residenza ufficiale. Ecco perché — anche se non è nella tradizione della mafia siciliana — qualche investigatore ipotizza che il predestinato a traghettare la “compagnia” verso giorni migliori possa scegliere volontariamente la latitanza. Se prima delle stragi alcuni boss ricercati si consegnarono spontaneamente — il caso di Salvatore Greco detto “il senatore” — per marcare in qualche modo il loro dissenso alle bombe, perché non valutare il percorso contrario per inaugurare una nuova stagione mafiosa?
Abbiamo già parlato degli “scappati”. Meritano una riflessione in più. Dati per finiti alla fine degli anni ‘80, ospitati dai “cugini” americani di Cherry Hills ma con divieto assoluto di vivere in Sicilia, ad uno ad uno sono tornati silenziosamente a Palermo e si sono acquartierati dove erano nati. A Passo di Rigano, all’Uditore, a Bellolampo. Superstiti ma con il portafoglio gonfio. A loro non sono mai stati confiscati i patrimoni accumulati con vent’anni di traffici di droga. Intatte o quasi le loro ricchezze. Hanno dalla loro parte la “tradizione”, hanno il denaro, hanno voglia di riprendersi quello che hanno perso per colpa di Totò Riina. Ma c’è un’altra incognita. C’è una mafia che conosciamo e c’è una mafia della quale sappiamo nulla. Una sorta di “Cosa Nuova” già annunciata dai pentiti più informati. C’è davvero? E, se c’è, da chi è rappresentata? Chi sono? Imprenditori amici che hanno ereditato denaro e relazioni? Insospettabili e uomini senza passato?
Poi chissà, se Corleone resterà davvero a guardare. La mafia cresciuta ai piedi della Rocca Busambra si accontenterà di farsi sotterrare come “storia”? Come “Tombstone”, pietra tombale, come era conosciuta in America nel 1955. Corleone si ridurrà a diventare solo la Corleone cinematografica di Mario Puzo che ne “Il Padrino” chiamò — anticipando il resto del mondo — il protagonista del suo libro Vito Corleone. Vito come Ciancimino e Corleone come il paese. Resterà solo il “nome” a Corleone?
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I nuovi vertici dovranno rappresentare tutte le province e tutte le fazioni, falchi e colombe Il latitante trapanese “non unisce”. Più chance per Guttadauro, Scotto e Grizzaffi
FOTO: ©FOTOGRAMMA
Il 23 maggio del ‘92 la strage di Capaci. Per l’attentato sono stati condannati all’ergastolo, tra gli altri, Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano

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