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LA GIUSTIZIA DA RIFORMARE

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LETTERE

MASSIMO KROGH

I processi penali fuori delle regole temporali sono divenuti ormai abituali, e purtroppo Napoli, meravigliosa città ma indietro a nessuno per disordine e litigiosità, al riguardo offre un notevole contributo alla giustizia senza tempi. Forse non è superfluo un accenno al percorso legislativo che nel concreto ha prodotto esiti diversi da quelli desiderati. Prima del 1989, il nostro processo penale era regolato dal codice Rocco (1931), di natura seminquisitoria, nel quale la fase del giudizio (dibattimento) era molto sacrificata; non vi erano esami e controesami come oggi, tutto si risolveva in una veloce “conferma” di quanto raccolto nell’istruttoria. Pertanto, i tempi processuali erano molto più ridotti rispetto ad oggi, ma in un contesto che appariva privilegiare la fase istruttoria rispetto a quella del giudizio. Sicché il legislatore, per mettersi al passo con le società più avanzate in materia dei diritti della gente (mondo anglosassone, che aveva cominciato a succhiare il latte dei diritti nel 1215 – Magna Charta), pensò di introdurre un codice processuale di rito semiaccusatorio; ciò avvenne nel 1989. Nel rito semiaccusatorio, tipico delle società moderne industrialmente più avanzate, si prevede un fortissimo controllo di legalità; reso necessario dal fatto che l’avanzamento industriale, con l’effetto consumistico, provoca anche una crescita potenziale e spesso effettiva della criminalità sia comune (e organizzata) sia economica. Ciò impone di attribuire un forte potere all’organo che presiede al controllo di legalità, cioè al pubblico ministero, peraltro nelle democrazie ogni potere, per forte che sia, è soggetto alla regola del bilanciamento, che si sostanzia nell’istituzione di contropoteri che evitino l’eccesso di esercizio del potere. Il legislatore italiano nell’89, nell’affidare enormi poteri all’ufficio del pubblico ministero, ha trascurato il problema del bilanciamento. Oggi si può indagare dappertutto senza “funzionanti” limiti di competenza nella fase investigativa, e quanto al tempo, i “paletti” temporali sono quotidianamente scapolati con piccoli artifici processuali, convalidati dalla giurisprudenza (fatta da giudici non terzi). Di qui processi “fiume”. In definitiva, anche in questo rito le indagini hanno espropriato e allontanato il verdetto, che il codice dell’89 avrebbe invece voluto privilegiare e rendere quanto più breve possibile. Il legislatore non tenne conto del medio standard culturale del Paese e delle strutture e dei mezzi in cui introduceva il nuovo rito; più avanzato, ma bisognoso d’una diversa cultura sociale e di altri mezzi per funzionare. Forse oggi l’eccesso di potere conferito senza bilanciamenti all’ufficio del pubblico ministero rappresenta una delle cause delle disfunzioni giudiziarie rompendo il necessario equilibrio fra indagine e processo; inoltre, compromette i rapporti istituzionali dello Stato (ad esempio con la politica), ed incide negativamente sul funzionamento sia della pubblica amministrazione che dell’impresa, per il clima d’intimidazione presente nel Paese. Queste considerazioni inducono a essere favorevoli alla separazione delle carriere giudici/ Pm. Anche per adeguarsi al resto del mondo occidentale, visto che siamo l’unico paese ad avere un pubblico ministero che, nei fatti e nel contesto dell’opinione pubblica, è considerato (impropriamente) un giudice.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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