le scelte dell'europa
Il racconto.
La linea dura scelta da Madrid ha ridato fiato a un movimento secessionista fino a poco tempo fa minoritario
CONCITA DE GREGORIO
IL GESTO di Carles Puigdemont– andare fisicamente, portare il suo corpo al centro dell’Europa – ha la semplicità disarmante del disegno di un bambino: se non hai capito cosa intendo te lo faccio vedere, significa quel gesto. Intende dire, il presidente destituito della Catalogna, che di questa vicenda si deve occupare l’Unione.
«A cosa serve, altrimenti, l’Europa di Altiero Spinelli se non a dirimere le questioni di democrazia, di libertà, di rispetto reciproco e di rispetto del voto dei cittadini degli Stati membri? », mi ha detto.
A cosa serve l’Europa se non è in grado di fare quel che farebbe qualunque padre con due figli che litigano: lasciarli dire e fare, finché è lecito e possibile, poi convocarli a sé: venite qui, a questo tavolo, parliamo.
«A cosa serve, altrimenti, l’Europa di Altiero Spinelli se non a dirimere le questioni di democrazia, di libertà, di rispetto reciproco e di rispetto del voto dei cittadini degli Stati membri? », mi ha detto.
A cosa serve l’Europa se non è in grado di fare quel che farebbe qualunque padre con due figli che litigano: lasciarli dire e fare, finché è lecito e possibile, poi convocarli a sé: venite qui, a questo tavolo, parliamo.
«Un’Europa che risponde solo alle banche, all’interesse economico, alla convenienza dello Stato guida non è quella per cui in tutta la nostra storia ci siamo battuti».La Catalogna è la più europeista delle regioni di Spagna, storicamente. Tra le più europeiste d’Europa, in questi tempi. Il silenzio imbarazzato delle istituzioni europee e l’inazione dell’Unione di fronte ai fatti di Spagna – di fronte alle ripetute, ossessive e quasi monotone richieste pubbliche e private rivolte da Puigdemont ai leader europei - è il dato politico più eloquente e insieme più preoccupante non solo per la Catalogna, ma per tutti gli stati dell’Unione. Per il futuro, più che per il presente. Un difetto di senso strutturale.
Ma torniamo indietro di qualche passo. Proviamo a dare una risposta senza speculazioni, per punti e sulla base di elementi noti, alle domande che il resto del mondo pone in queste ore a chi vive in Catalogna o ne conosce la storia in modo diretto e approfondito. Le domande: siamo di fronte a golpisti? A dilettanti della politica in cerca di momentanea gloria o di martirio? Cosa significa, è puro situazionismo questa esibizione di posizioni di principio? Questa prova di forza a cosa serve, dove porta?
L’INDIPENDENTISMO
La maggioranza dei cittadini catalani non è indipendentista. O almeno non lo era fino a che la Guardia Civil mandata da Rajoy e poi Rajoy stesso, con l’avallo del Re Felipe, non ha spinto nell’angolo una popolazione pacifica che desiderava esprimersi col voto. Prima aggredendo le persone inermi ai seggi, poi attivando la legge che sospende l’autonomia e destituendo il governo. Non sappiamo se oggi, dopo i fatti del 1° ottobre e delle settimane successive, l’indipendentismo vincerebbe nelle urne. Certo ad azione corrisponde reazione. Ma fino al primo ottobre gli indipendentisti erano la minoranza. Lo dicono i risultati elettorali delle tornate precedenti e persino quello del referendum contestato: al quale hanno votato poco più di due milioni di persone su una base elettorale di oltre cinque milioni. Dunque ha detto sì all’indipendenza la maggioranza della minoranza degli aventi diritto. Non è facile interpretare la posizione di chi non è andato a votare ma in questo caso è sensato supporre che se avesse voluto esprimersi per l’indipendenza, data l’intensità e il valore dello scontro politico, lo avrebbe fatto.
In conclusione: se il governo centrale guidato dal Partito Popolare di Mariano Rajoy avesse consentito che i catalani votassero al referendum avrebbe quasi certamente vinto il no, convengono tutti gli analisti (il governo poteva farlo e non lo ha fatto: quando si dice che il referendum era illegale si omette di aggiungere che la Costituzione del ’78 ammette quel tipo di consultazione se concordata col governo centrale. Che in questo caso ha negato il consenso). I catalani volevano la libertà di votare – la posizione di Podemos e di En Comù Podem della sindaca Ada Colau, contraria all’indipendenza ma favorevole al voto, è uno dei molti esempi. Perché Rajoy dunque non lo ha consentito? È sciocco? È incapace?
LA POSIZIONE DI RAJOY
Né sciocco né incapace, il capo del governo spagnolo aveva tutto l’interesse ad infiammare la questione catalana e lo ha fatto. Interesse duplice: uno, incassare consenso elettorale in vista delle prossime politiche, per arrivare alla maggioranza assoluta e liberarsi dello scomodo appoggio dei socialisti, avversari storici e in altri tempi naturali del Pp. Due, distogliere l’attenzione dalle incredibili vicende di corruzione che hanno riguardato e riguardano membri del suo esecutivo. Il governo Rajoy, lo dicono i fascicoli giudiziari aperti, è tra i più corrotti del dopo-Franco.
L’inchiesta sulla fabbrica del fango e sui falsi dossier azionati dal ministero dell’Interno era, alla vigilia del caso catalano, la bomba sul punto di esplodere. Cloacas del Interior, inchiesta giornalistica trasmessa in quei mesi in tv, ne è solo una riduzione a sintesi. L’anticatalanismo atavico del resto di Spagna è il sentimento su cui Rajoy ha fatto leva, ergendosi a paladino dell’Unità in vista di un futuro incasso elettorale.
LA POSIZIONE DEI SOCIALISTI
Il Psoe rischia di uscire da questa vicenda ridotto all’inutilità politica. La posizione di Pedro Sánchez, che ha appoggiato Rajoy sordo all’invito di Podemos e di Ada Colau di collaborare, invece (questo era il senso del Tavolo di Saragozza) a sfiduciare Rajoy e costruire una nuova maggioranza, lo colloca in posizione del tutto marginale. Soprattutto se alle prossime politiche dovesse crescere, secondo il calcolo di Rajoy, il consenso elettorale del Pp e del suo principale alleato Ciudadanos.
Il governo non avrebbe più bisogno del Psoe, che ha nel frattempo perso credibilità a sinistra. Resta, forte, il bacino andaluso. Un destino da partito regionale. Ancor più vistosa la parabola socialista se vista dalla Catalogna: fu il socialista Pasqual Maragall a scrivere l’Estatut – la carta di autonomia concordata col governo socialista di Zapatero – che, se fosse rimasta in vigore, avrebbe messo il punto alla vicenda catalana. Ma il Partito Popolare, sopraggiunto al governo a dicembre del 2011, un anno prima aveva favorito la pronuncia della Corte costituzionale (per una parte di nomina politica) a sfavore dell’Estatut, che decadde. La storia di oggi comincia allora: nel 2010, con la cancellazione di un lavoro politico di decenni, ottenuto e infine cassato. Per sette anni i catalani hanno chiesto un nuovo Statuto di autonomia, invano.
LA POSIZIONE DI PUIGDEMONT
Il leader destituito è subentrato al governo catalano in maniera inaspettata, candidato dell’ultimora alla sostituzione di Artur Mas. Era sindaco di Girona, una cittadina vicina al confine con la Francia. Giornalista pubblicista, cattolico, scout, pacifista. Uomo di destra moderata. Una destra democristiana, diremmo in Italia. Ha subito chiarito che avrebbe esercitato un solo mandato. La missione politica, per la quale è stato sostenuto al governo dalla sinistra radicale della Cup e da quella anticomunista e antisocialista di Esquerra Republicana, era chiara: indire il referendum, e tener fede al risultato. «Ho un solo compito. Portare il mio popolo a votare e tener conto del voto, qualunque esso sia. Il giorno dopo torno dalla mia famiglia. Ho due figlie piccole, voglio vederle crescere, la politica non è nel mio futuro ».
Dopo il referendum del 1° ottobre e nonostante l’aggressione alla quale i cittadini sono stati sottoposti (negli attacchi della Guardia Civil una donna ha perso un occhio a causa di una pallottola di gomma, proiettile proibito dalla legge, centinaia sono stati i feriti) il presidente ha cercato senza sosta una posizione di dialogo col governo. Anche dopo la messa sotto accusa del capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale che non si è unita agli assalti, dopo l’arresto dei “due Jordi”, dopo le dichiarazioni pubbliche della vicepresidente del governo Soraya Sáenz de Santamaría che negava le violenze documentate da giornalisti di tutto il mondo Puigdemont ha continuato in pubblico e in privato a invocare l’intervento dell’Europa. Ha sperato in Prodi, che con Fassino e Bobo Craxi aveva sottoscritto un documento in favore del dialogo. «Ho cercato tutti. Le questioni di libertà e di democrazia poste dalla Catalogna sono materia che compete all’Europa. Noi abbiamo subito violenza e non ne abbiamo esercitata. Non una mano si è levata, non un vetro si è rotto nelle strade per parte nostra. Anche di fronte alle provocazioni, alle prevaricazioni. In attesa di essere chiamati a un tavolo: di avere un luogo dove discutere dei diritti di chi chiede di essere ascoltato, di votare». L’intenzione di Puigdemont, negli ultimi giorni, era quella di indire nuove elezioni catalane. La spinta della Cup e di Esquerra lo ha portato verso la dichiarazione unilaterale di indipendenza come gesto ormai solo simbolico: la procedura di destituzione da parte del governo centrale era ormai avviata.
Ha forzato la mano quando non c’era altro da fare, «perché restasse almeno il segno che quel che abbiamo fatto non è stato vano». A chi gli dice che il risultato elettorale non consentiva di dichiarare indipendenza - che non c’era maggioranza effettiva degli aventi diritto al voto - risponde che vale la maggioranza di chi è andato a votare, in democrazia. «Il punto, oggi, è che l’Europa non può tacere. Non può voltare le spalle e liquidare quel che è avvenuto come un fatto interno. Non vogliamo un’Europa dei banchieri, vogliamo un’Europa dei cittadini. Non sono io il problema, è la Catalogna. Io non ci sarò in futuro, la nostra gente sì. La mia missione politica si chiude qui». Qui, a Bruxelles. A dire fisicamente a chi governa l’Unione: parliamo.