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“Abusato 200 volte a 11 anni il mio lager a Ratisbona nel coro delle voci bianche E Georg Ratzinger sapeva”

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L’inchiesta sulla pedofilia
Germania.
L’inchiesta sull’istituzione diretta dal fratello del predecessore di Bergoglio: 547 le vittime di violenza, accusati 49 educatori

TONIA MASTROBUONI
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
BERLINO.
Coperchi di pianoforte sbattuti con violenza sulle dita dei bambini, le loro testoline colpite con i pugni o con pesanti anelli. Ragazzini allergici costretti a ingurgitare pietanze proibite finché non soffocavano. O a mangiare il proprio vomito se rimettevano il rancio da caserma che erano costretti a mandare giù. Adolescenti presi per un orecchio per tenere ferma la testa e assestare meglio schiaffi brutali con la mano piatta. Altri bambini picchiati regolarmente, selvaggiamente e spesso senza motivo con bastoni e mazze. O sottoposti ogni mattina a docce bollenti o fredde, a seconda dell’umore dei precettori. E soprattutto: stupri. Stupri ripetuti per anni e anni. Violenze e molestie sessuali inflitte prevalentemente a bambini tra i 6 e gli 11 anni. Al liceo, le violenze proseguivano, ma meno frequenti rispetto alle classi elementari.
Possibile che nessuno sapesse delle torture sistematiche inflitte per decenni agli alunni del più prestigioso Coro di voci bianche della Germania, quello dei Domspatzen di Ratisbona? Possibile che nel Paese che ha fatto della trasparenza la sua bandiera, soprattutto dopo il nazismo, decenni di violenze in uno dei collegi più in vista della nazione siano state inghiottite dall’«ignoranza» e dall’«indifferenza», come si legge nel rapporto conclusivo presentato ieri sul massimo scandalo della Chiesa tedesca, che ha portato alla luce 547 casi di maltrattamenti e violenze sessuali?
Alexander Probst fu vittima di abusi sessuali nel Coro dalla storia millenaria quando aveva undici anni per ben duecento volte, come denunciò sette anni fa, contribuendo all’avvio dell’inchiesta. Intervistato al telefono da Repubblica, Probst dice chiaro e tondo che «Georg Ratzinger sapeva. Sapeva e ha fatto finta di niente». Il fratello del papa emerito Benedetto XIV è stato direttore del Coro per trent’anni, dal 1964 e il 1994 – i più atroci, secondo l’indagine. L’avvocato Ulrich Weber, incaricato dalla Diocesi di Ratisbona di guidare l’inchiesta, ha rilevato 547 casi di abusi e 49 insegnanti, dirigenti e direttori che tra la fine della guerra e il 1992 si sono resi colpevoli di torture che tanti bambini hanno paragonato a quelle dei campi di concentramento. I termini che ricorrono nei ricordi delle vittime sono infatti «inferno», «prigione», «campo di concentramento». Di quei casi ben 500 parlano di violenze corporali, mentre 67 hanno subito sia botte che molestie sessuali.
«Nessuno, all’epoca, osava parlare», ci racconta Probst. «Al di là del terrore che avevamo degli insegnanti e dell’assistente che mi violentò, eravamo certi che nessuno ci avrebbe ascoltati. Nessuno sarebbe stato disposto a crederci».
Probst si aspettava il risultato dell’indagine di ieri: «547 vittime è un numero scioccante e terribile, ma me lo aspettavo. Io c’ero, io ho visto e ho vissuto quelle torture». Per l’ex alunno del Coro di Ratisbona il momento della liberazione da anni di maltrattamenti e violenze sessuali non è stato ieri. «È stato quando sono riuscito finalmente a raccontare la mia storia»: Probst ha scritto
“Abusato dalla Chiesa” sulla sua atroce esperienza. E negli ultimi sette anni di battaglie per far luce sugli orrori di Ratisbona, «i primi cinque sono stati molto difficili: soltanto dopo è cominciata la collaborazione della Chiesa».
Delle 547 vittime, racconta, sono 300 ad aver chiesto un risarcimento. Le prime 50 lettere sono già partite, le indennità possono arrivare a 20mila euro. Ma non tutti sono disposti a parlare. Alcuni, anzi, cercano di sdrammatizzare. Anche Alexander Metz, ad esempio, ha scritto un libro su quegli anni per cercare di convincere i lettori, ma forse più se stesso, che quelle atrocità erano normali. Ai giornali tedeschi l’ex alunno del collegio degli orrori ha descritto le botte come parte integrante di un metodo pedagogico molto diffuso «fino agli anni Settanta».
Metz è andato persino a trovare due anni fa un suo ex insegnante di matematica che lo aveva picchiato regolarmente. Per giustificarsi, l’insegnante gli ha raccontato di essere un sopravvissuto di un campo di concentramento che voleva imprimere ai suoi allievi attraverso le botte «il senso di quanto la vita è dura». Ma Probst, sentendo i racconti di Metz, si infuria: «Forse non è stato maltrattato, forse non si rende conto dei danni che fa. Dice un’assoluta idiozia affermando che quelli fossero metodi “normali”. Se non fossero stati inflitti dagli insegnanti e dai direttori del più famoso Coro di voci bianche della Germania, sarebbero diventati uno scandalo già allora. Il prestigio millenario di quell’istituzione ha aiutato i carnefici a nascondersi per decenni».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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