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Alla ricerca dell’anima delle leggi

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CULTURA
Il diritto non è un concetto astratto ma un testo che va interpretato e adattato ai singoli casi: un metodo identico a quello della psicoanalisi

MICHELE AINIS
C’è differenza tra un sonetto di Shakespeare e la legge sulla fecondazione assistita? Ovviamente sì, sono questioni ben diverse. Eppure in entrambi i casi abbiamo a che fare con un testo, dunque con le parole iscritte in quel testo; e dobbiamo interrogarle, dobbiamo insomma interpretarle per estrarvi un senso. Sennonché l’interpretazione di un testo normativo esprime un che di singolare rispetto all’interpretazione d’un brano letterario, religioso, filosofico. Richiede un passaggio in più, uno sforzo ulteriore. Nella prima situazione, difatti, fra il testo e l’interprete si frappone un terzo anello: il caso della vita, l’accidente che ti trasforma in debitore o in creditore, il torto per cui reclami giustizia in tribunale. Senza la pressione dei casi, l’interpretazione del diritto sarebbe un esercizio sterile, gratuito. Ecco perché ciascun giudice è un po’ un esploratore, accende un faro sull’ordinamento giuridico per individuarvi la regola appropriata al caso su cui deve giudicare. Ed ecco perché la giurisprudenza è una «scienza pratica», come diceva Salvatore Pugliatti: serve a dirimere contrasti, a risolvere vicende esistenziali. Dietro le parole della legge ci sono uomini e donne in carne e ossa, con i loro umori e amori, con le loro differenze, con le loro sofferenze.
I giuristi dovrebbero saperlo, ma per lo più se ne dimenticano. S’infatuano delle loro costruzioni astratte, propongono teorie e modelli smarrendo in ultimo il contatto con la vita. Oppure cercano la ratio legis, il fine razionale cui dovrebbe tendere ciascuna disposizione normativa, come se il legislatore fosse un essere onnisciente, e non piuttosto una folla di parlamentari vocianti che spesso ignorano l’oggetto stesso delle proprie votazioni. Da qui l’urgenza d’un bagno di realtà. Da qui, in secondo luogo, la necessità di costruire un ponte fra la generalità della legge e la particolarità dei singoli individui, delle loro storie, delle loro vite. Per riuscirvi occorre investigarne la «verità antropologica», scrive Massimo Recalcati introducendo il libro di Aldo Raul Becce, Scene della vita forense (Mimesis 2017).
Lui è uno psicoanalista argentino che lavora a Trieste, sacerdote d’una disciplina che risale al Medioevo, e che ha per l’appunto l’ambizione d’offrire un canale di comunicazione fra psicoanalisi e diritto: la psichiatria forense. Sorella d’altre discipline insegnate nelle università italiane, come la psicologia criminale, oppure quella giudiziaria, rieducativa, legale, investigativa. Nel loro insieme, studiano l’anima della giustizia, se così possiamo dire; indagano i processi psicologici dai quali sgorga il verdetto giudiziario, le relazioni tra avvocati e imputati, le condizioni mentali del reo, l’ambiente che alleva il suo delitto. Ma talvolta restano prigioniere di manuali che sembrano «trattati di botanica umana», osserva Becce. Meglio invece partire dai casi, dall’irripetibilità delle esperienze, per cogliere l’essenza del diritto.
Come la vicenda riassunta nel terzo capitolo del libro, dove va in scena un dramma familiare. Lui e lei s’incontrano a un corso di ballo; prima di finire il passo base, la donna resta incinta; quando il corso s’avvia alla conclusione, sono già separati. Una coppia come tante: fanno un figlio prima di conoscersi, perché se si conoscessero non lo farebbero mai. Nel loro caso il figlio è una bambina – Ilaria – ostaggio della zuffa perenne fra i suoi genitori, che a un certo punto matura un rifiuto del padre, tanto da non volerlo più vedere. Applicando le categorie giuridiche, dovrebbe venire affidata alla madre; invece Becce, in qualità di consulente giudiziario, ne propone l’affidamento al Servizio sociale, vietandole ogni contatto con la madre. Durante la perizia, infatti, s’è reso conto che il rifiuto di Ilaria trae origine dalla decostruzione della figura paterna orchestrata dalla madre, fino al punto d’accusarlo (falsamente) di abusi sessuali sulla figlia.
Insomma, le apparenze del diritto quasi mai coincidono con il rovescio della vita. Ed è esattamente questo l’apporto della psicoanalisi al diritto: favorirne il passaggio dall’astratto al concreto, dalla ragione all’emozione. Dopotutto la legge non è che «una specifica esperienza psichica», diceva Lev Petrazhickij, psicogiurista russo. Aveva ragione, tanto che un secolo dopo abbiamo celebrato il battesimo d’una nuova scienza: il Neurodiritto. Ma già nel primo Novecento Freud e Kelsen si frequentavano, si scambiavano idee, scrivevano saggi incrociati.
D’altronde il più delle volte è la legge stessa a chiamare la psicoanalisi in soccorso. Succede, per esempio, rispetto alla legislazione sui minori, discussa nelle sue implicazioni psicologiche in un volume collettivo a cura di Mariela Castrillejo: Il soggetto fuorilegge (Franco Angeli 2016). Difatti, dopo la riforma del diritto di famiglia (1975), il giudice è obbligato a tutelare «l’interesse morale e materiale della prole»; ma come mai potrebbe pronunciarsi, come potrebbe decidere quale sia l’interesse preminente del minore, senza ricostruirne la vicenda esistenziale? Questioni analoghe sorgono per i tossicodipendenti, cui si rivolgono altre pagine del libro. O per gli immigrati, di cui tratta un volume di Isabella Merzagora: Lo straniero a giudizio (Raffaello Cortina 2017). Fino a che punto può accettarsi il concetto di «reato culturalmente motivato»? E dove si situa il confine tra una credenza e il sintomo d’una malattia mentale? Senza dire della diffidenza che circonda gli immigrati, rendendone più dura anche la sorte giudiziaria. Quali anticorpi possiamo mettere in circolo per rispettarne l’eguaglianza?
C’è però una categoria ancora più discriminata degli stranieri o dei tossicodipendenti: i brutti. Per ottenerne qualche prova, si può sfogliare un libro firmato da Guglielmo Gulotta ed Ersilia Maria Tuosto: Il volto nell’investigazione e nel processo (Giuffrè 2017). Vi si descrive, per esempio, una ricerca americana degli anni Novanta, dove si dimostra che i giudici infliggono sanzioni più severe alle persone meno attraenti. Si raccontano gli interventi di chirurgia plastica eseguiti sui criminali fin dagli anni Sessanta del secolo passato, nella speranza di ridurre i loro tassi di recidiva. S’illustra il FaceReader, un software che analizza le espressioni emotive del volto umano. E in conclusione il cerchio si chiude: se il diritto s’appella alla psicoanalisi, quest’ultima rinvia alla fisiognomica, scienza fondata da Aristotele. Dal giudizio al pregiudizio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Così in ambito giuridico la psicologia può aiutare a superare la pura ragione per approdare alla sfera emotiva

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