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Genocidio Sud Sudan

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Tra gli scampati alla pulizia etnica della guerra civile “Combattimenti e carestia: oltre 300mila le vittime”

L’odissea di Rhoda e dei suoi figli “Siamo vivi ma mangiamo radici”
PIETRO DEL RE
DAL NOSTRO INVIATO
NYAL (SUD SUDAN)
Rhoda Nyabuan è finalmente al sicuro. Nei prossimi mesi i miliziani non potranno né stuprarla né castrare i suoi figli. Con l’arrivo delle piogge, l’acqua ha cominciato a ingrossare le paludi del Nilo Bianco rendendo l’isolotto dov’è approdata lo scorso maggio un provvisorio santuario per chi come lei fugge dai massacri etnici. Ma qui Rhoda rischia di morire di fame. «Mangiamo soltanto radici di ninfee selvatiche e beviamo direttamente dalla palude perché delle piccole scorte di cibo che c’ha distribuito al nostro arrivo una ong tedesca non è rimasto nulla», spiega questa ragazza di 20 anni, già madre di tre figli. «Molti di noi s’ammalano e muoiono e la mancanza di cibo ha inaridito il mio seno, perciò temo per la sua vita», aggiunge Rhoda guardando il bimbo di pochi mesi che tiene in braccio.

A Nyal, nello stato sud-sudanese dello Unity, arrivo con un elicottero delle Nazioni Unite perché per via della guerra civile che insanguina il Paese la maggior parte delle strade sono chiuse. Le testimonianze che raccolgo in queste paludi dove hanno trovato rifugio decine di migliaia di disgraziati si somigliano tutte: Rhoda, come Mary Nyagiey o Nyakeng Mead, scappa da Leer e Mayendit, a nord di Nyal, dove i soldati lealisti di etnia di dinka combattono contro gli oppositori di etnia nuer per appropriarsi dei pozzi petroliferi.
«Pur di non finire nelle loro mani abbiamo preferito inoltrarci in questi acquitrini che pullulano di serpenti velenosissimi e di coccodrilli. Siamo anche stati attaccati da ippopotami inferociti, che hanno rovesciato canoe simili alla nostra, uccidendo chi c’era dentro.
Ma non ci siamo fermati perché altrove nel Paese il solo modo di essere al sicuro per noi donne è quello di essere morte».
Basterebbe moltiplicare per un milione la tragedia di Rhoda per capire la catastrofe umanitaria che funesta il Sud Sudan, la più giovane nazione del pianeta, nata nel 2011 quando un referendum vinto con il 98,8 per cento dei voti sancì la sua indipendenza dagli arabi di Khartum. Ma il sogno di libertà e autodeterminazione è durato poco, perché nel 2013 scoppia una guerra tra i sostenitori del presidente dinka Salva Kiir, e quelli del vice-presidente nuer Riek Machar, oggi in esilio in Sud Africa. Da allora, secondo alcune stime il conflitto avrebbe già provocato 300mila morti, più che in Siria. Ma qui è più difficile contarli perché a uccidere non sono né i proiettili né i barili pieni di esplosivo come ad Aleppo, bensì la fame e le malattie, prima conseguenza della pulizia etnica in corso. Già perché sia le forze governative, che sono numericamente superiori e meglio armate, sia le milizie dell’opposizione, s’accaniscono sui civili massacrandoli a colpi di machete, violentando le donne e castrando i bambini, bruciando i loro villaggi e distruggendo gli ospedali: “genocidio” è ormai un termine adoperato nei rapporti ufficiali di tutte le organizzazioni umanitarie presenti nel Paese.
Dice padre Louis, comboniano sud-sudanese che incontro nella capitale Juba: «Il Paese sopravvive soltanto grazie agli aiuti umanitari perché non si coltiva più la terra e perché tutti i collegamenti sono interrotti. Chiudono perfino le scuole, perché da mesi gli insegnanti non ricevono più lo stipendio. Purtroppo, la fame può diventare un’arma contro la popolazione e favorisce la nascita di milizie di mercenari locali. Ci sono villaggi di gente affamata che rifiuta il cibo perché ricevendone diventerebbero un possibile bersaglio di soldati a loro volta affamati».
In questa man made famine, o carestia fabbricata dell’uomo, come l’ha definita Morten Petersen, capo degli aiuti umanitari della Commissione europea, anche Nyal sopravvive soltanto grazie ai sacchi di riso e fagioli che scaricano gli elicotteri, con cui arrivano anche i generatori di corrente e il carburante per farli funzionare. Da qui, il rifugio di Rhoda dista un’ora di canoa in una maremma d’acqua smeraldina che in un altro contesto storico evocherebbe un Eden naturalistico, perché tra canneti e praterie di ninfee d’un viola delicato vedo ovunque aquile pescatrici, anatre, cormorani, ibis, martin pescatori. Prima che vi approdassero i sopravvissuti ai massacri del nord, sull’isola vivevano tre famiglie. Adesso, ogni suo angolo è stato disboscato con attrezzi di fortuna per creare fazzoletti di terra dove i rifugiati coltivano mais e papaya. Ma prima del raccolto dovranno passare mesi.
Oltre al cibo nelle lagune manca la più elementare assistenza sanitaria. L’organizzazione padovana “Cuamm medici con l’Africa”, massicciamente presente in questo giovanissimo Paese, perché tra i suoi umanitari conta una sessantina di espatriati e un migliaio di locali, sta cercando di intervenire anche a Nyal.
Pioniere del progetto d’aiuto in queste remote marane è Giovanni Dall’Oglio, 60 anni, esperto di salute pubblica e fratello del gesuita Paolo Dall’Oglio, rapito dagli islamisti a Raqqa nel 2013. «Allestiremo unità sanitarie in quattro aeree che ne sono completamente sprovviste per garantire la cura delle patologie più frequenti, ossia malaria, diarrea e malattie respiratorie, e lo faremo con servizi di ambulanza in barca », dice Dall’Oglio. «Gestiremo anche la sala operatoria dell’ospedale di Nyal, l’unica in tutta la regione, che servirà essenzialmente per le ferite d’arma da fuoco e per i cesarei ». Il Cuamm, piccola ogn che qui per dedizione e professionalità rivaleggia con le grandi del pianeta, da giovedì scorso vanta l’exploit di aver fatto diplomare 20 ostetrici nell’infernale caos sud-sudanese.
Intanto, in un Paese dove l’inflazione ha raggiunto il 700%, dov’è più facile incontrare una ragazza violentata che una diplomata perché ai soldati che non sono più pagati è consentito lo stupro, dove dall’inizio del conflitto sono già stati ammazzati 90 operatori umanitari e dove i loro convogli sono regolarmente saccheggiati, il 22 giugno scorso le Nazioni Unite hanno ammonito che l’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli senza precedenti, con milioni di bambini gravemente denutriti. Tra questi, ci sono i piccoli che vedo nelle baracche accanto a quella di Rhoda, con le pance gonfie, la pelle flaccida sulle bracine e la fatica che gli impedisce perfino di scacciare le mosche dalla bocca. Rhoda mi racconta che quando sono arrivati i soldati, per prima cosa le hanno ammazzato il marito: «Hanno poi bruciato la nostra casa e rubato il bestiame. Sono fuggita quand’ho capito che avrebbero ucciso anche me e i miei bambini».
Sembra che non ci siano alternative a questo conflitto dove si combattono tra loro anche clan dinka e clan nuer e dove c’è chi rimpiange gli arabi del nord, che durante la lunga guerra d’indipendenza uccidevano gli uomini ma risparmiavano donne e bambini. Servirebbe un commissariamento dell’Onu per salvare il Sud Sudan, ma del miliardo e mezzo di dollari necessari a sfamare i suoi tre milioni di profughi interni, a sanare le infrastrutture in sfacelo e a fermare i massacri etnici, la comunità internazionale non ne ha stanziati neanche un terzo. «Già, al momento non c’è speranza», dice ancora Rhoda. «Né qui vedo un futuro per i miei figli».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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LE IMMAGINI
IL FOTOGRAFO
Fabio Bucciarelli è nato a Torino nel 1980. Dal 2010 documenta i grandi cambiamenti avvenuti in Africa e Medio Oriente, dalla guerra civile libica alle crisi dei profughi in Siria, Libia e Iraq.
Nella foto qui sopra, il dolore della famiglia ai funerali di un uomo

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