COMMENTI
SEBASTIANO MESSINA
SOLO il genio fulminante di Paolo Villaggio— che prima di essere un grande attore fu uno straordinario scrittore, tradotto e premiato persino in Unione Sovietica — poteva tirar fuori dal pozzo grigio del tran tran aziendale le tragicomiche gesta di Fantozzi, che lui definiva «il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità», e raccontare meglio di qualunque saggio sociologico l’Italia degli impiegati di quarto livello, l’Italia del posto fisso, l’Italia che non c’è più.
Perché la saga fantozziana, durata un quarto di secolo, è stata soprattutto l’anti- epopea della Megaditta, la madre di tutte le aziende dell’Italietta del dopo- boom dove ogni giorno si celebrava il rito dell’uscita delle cinque, con il conto alla rovescia come quello di Cape Canaveral, una narrazione per frammenti che riproduceva con l’efficacia tagliente e amara della comicità le dinamiche, le regole e i personaggi di tutti gli uffici del Belpaese, in ciascuno dei quali c’era, se non un Megadirettore Galattico, di sicuro una signorina Silvani da corteggiare di nascosto e un ragionier Filini che organizzava le gite aziendali dove ci si giocava la promozione o l’aumento.
L’Italia di Fantozzi — e del ragionier Fracchia, nato come collega di Fantozzi e poi consegnato definitivamente alla poltrona-sacco, affinché vi sprofondasse ogni volta, con suprema goffaggine, insieme alla propria dignità — era un’Italia che per otto ore al giorno abitava il pianeta Ufficio, subendone le regole e sacrificandosi ai suoi riti, dalla partita “scapoli contro ammogliati” ai cineforum impegnati (e ci sarà un motivo se l’urlo liberatorio di Fantozzi, «La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca», è diventata una delle citazioni più celebri, oltre a riscuotere nel film «novantadue minuti di applausi»).
In fondo la Megaditta fantozziana — che nella realtà era la sede della Regione Lazio su via Cristoforo Colombo, offerta come set a Salce e a Villaggio — era il teatro caricaturale della vita quotidiana dell’impiegato medio, che ridendo delle comiche disavventure di quel ragioniere con la Bianchina, il basco e la figlia brutta rivedeva un po’ se stesso tra i vapori della mensa aziendale, tra le gaffe alla cerimonia dei regali di Natale o sotto lo sguardo paralizzante del duca conte Maria Rita Vittorio Balabam, e con quella risata esorcizzava il Fantozzi che era in lui. Perché ha ragione Beppe Grillo, Villaggio come Sordi ci ha mostrato il nostro peggio, ma a differenza del mitico Albertone non ci ha assolti, raffigurandoci come «esseri che seguono la corrente contorcendosi e che si ribellano all’improvviso, ma senza speranze».
Oggi l’Italia non è più quella di Fantozzi — che al cinema si è fermato nel 1999, senza mettere piede nel Terzo Millennio — non perché noi siamo migliori di ieri ma perché il mondo della Megaditta, del posto fisso e del cartellino da timbrare ha ceduto il posto ai call center, al telelavoro e ai co.co.pro, un nuovo universo precario non meno feroce di quello di Fantozzi ma con altre regole, altri personaggi e altri interpreti che facendoci ridere ce lo raccontano (come Checco Zalone, venditore di aspirapolvere in Sole a catinelle o Ficarra e Picone, disoccupati in fuga dal lavoro in Nati stanchi).
Paolo Villaggio non si riconosceva più in questa Italia. Lui che era stato comunista, demoproletario, radical-socialista e infine grillino, in fondo — avendo visto quello che è venuto dopo — aveva un po’ di nostalgia di quel mondo che aveva vivisezionato con Fantozzi. Anche se lui, a chi glielo avesse chiesto, forse avrebbe risposto come il ragionier Filini: «Vadi».
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