COMMENTI
ROBERTO TOSCANO
IL caso nordcoreano sembra costituire un’inquietante smentita alla ottimistica tesi secondo cui ogni problema finisce per avere una soluzione. Un paese isolato, militarista e paranoico — retto da una dittatura che mescola totalitarismo comunista del XX secolo con una visione del potere grottescamente arcaica — si è dotato di armi nucleari (si dice che attualmente disponga di 200 testate), e anche di missili in grado non solo di raggiungere la limitrofa Corea del Sud e il vicino Giappone, ma anche lo stesso territorio degli Stati Uniti.
In una Washington dove i militari hanno acquistato un peso preponderante nell’amministrazione Trump sembrerebbe naturale che le opzioni militari venissero prese in seria considerazione. Un attacco preventivo sulle basi missilistiche e gli impianti nucleari sarebbe tecnicamente fattibile, ma anche i falchi più fiduciosi nella supremazia delle forze armate americane dovrebbero essere oggi paralizzati da una remora basata sul più concreto realismo.
Anche se un’operazione di attacco preventivo fosse realizzata con successo, privando il regime nordcoreano della capacità di rispondere sul terreno nucleare, Pyongyang potrebbe comunque scatenare una terribile risposta devastando Seul con le migliaia di pezzi di artiglieria a lungo raggio schierati in prossimità della frontiera fra i due paesi.
Ma anche l’opzione della diplomazia, con l’inasprimento delle sanzioni — sanzionato dalle Nazioni Unite — non appare molto promettente. La Corea del Nord è riuscita a fare sorprendenti passi avanti nello sviluppo delle sue capacità nucleari e missilistiche nonostante le sanzioni, nonostante l’isolamento. Qui risulta centrale il ruolo della Cina, l’unico paese in grado di influire in modo sostanziale sull’economia nordcoreana. Un effettivo isolamento della Corea del Nord risulta impossibile senza una collaborazione di Pechino, che finora ha solo esercitato un ruolo di moderazione, discreto e sotto tono, nei confronti del regime nordcoreano. Il fatto è che la Cina vorrebbe certamente evitare le conseguenze destabilizzanti di un conflitto militare nell’Asia Orientale, ma nello stesso tempo guarda con sospetto alle aspirazioni di Washington di “mettere in riga” Pyongyang soprattutto rafforzando la propria presenza missilistica e aeronavale nella regione. Ancora più prioritario, per la Cina, è scongiurare la prospettiva di un collasso del regime nordcoreano. La Cina, coincidendo in questo con la Corea del Sud, è contraria a qualsiasi politica che abbia come possibile risultato il crollo di un regime — e inevitabilmente di uno stato — che comporterebbe l’apocalittico scenario di un disperato esodo di milioni di persone in fuga da un caos tanto più totale in quanto il paese non ha alcun’altra struttura portante se non il regime stesso.
Ma se non esiste una fattibile opzione militare e se quella dell’intervento della comunità internazionale non è molto credibile, forse rimane soltanto l’ipotesi della trattativa. È la linea del nuovo presidente sudcoreano Moon Jae-in, che vede in un pur difficile dialogo l’unica via per scongiurare il conflitto e nello stesso tempo avviare un lungo e graduale cammino verso la riunificazione del paese.
Anche qui, tuttavia, gli ostacoli risultano proibitivi. Certo, dire che Kim Jong-un è un pazzo al vertice di un regime allucinato, è poco convincente. Pur nella sua estrema bizzarria, il regime ha priorità politiche che allucinate non sono: mantenere il potere e dotarsi di strumenti militari che permettano di scongiurare attacchi e pressioni esterne compensando la disastrosa inconsistenza economica del paese. Gli esperti di storia coreana sono concordi nel sottolineare la profondità del radicamento, nel Nord, di un “ethos” nazional-militarista forgiatosi nelle tremende condizioni della lotta contro gli occupanti giapponesi e consolidatosi, negli anni della guerra in Corea, nello scontro con l’America. Per Kim e per il vertice del regime non vi è dubbio che la capacità nucleare, combinata con quella missilistica, venga vista come un deterrente irrinunciabile. È proprio per questa ragione che la via della trattativa appare difficilmente percorribile, a meno di non volere immaginare una disponibilità americana a riconoscere il diritto della Corea del Nord di possedere armi nucleari e missili, seppure con l’accettazione di alcuni limiti. Difficile, in effetti, fare marcia indietro sul nucleare. O meglio, è possibile fermare il processo nelle sue fasi iniziali (vedi l’accordo nucleare con l’Iran), ma una volta superata una certa soglia, soltanto una prospettiva di disarmo nucleare generalizzato sarebbe proponibile. Un sogno, certamente generoso e che merita di non essere archiviato, che fu di Reagan e Gorbaciov nel loro incontro di Reykjavik del 1986, e che venne ripreso nel 2009 da Obama nel suo discorso di Praga. Paghiamo tutti il prezzo di non essere riusciti a fare passi avanti sulla via di quel disarmo nucleare che doveva costituire, al di là dei limiti e dei controlli, la promessa a più lungo termine del Trattato di non proliferazione.