CULTURA
Da Auschwitz alle battaglie civili fino a Strasburgo. È morta a 90 anni una protagonista della vita europea
La memoria come sfida di una donna del Novecento
UMBERTO GENTILONI
Da giudice si dedica ai diritti dei detenuti e alla condizione femminile Battendosi a favore della depenalizzazione dell’aborto, viene colpita da insulti nazisti.
Una biografia che porta la cifra del secolo scorso nei suoi passaggi più terribili e nelle grandi conquiste che ne hanno segnato il cammino. Simone Veil è un simbolo del Novecento, un’icona di diverse stagioni, avrebbe compiuto 90 anni tra pochi giorni. Sopravvissuta ad Auschwitz Birkenau, testimone della Shoah, femminista protagonista di battaglie per le libertà delle donne e da ultimo costruttrice dell’Europa unita, presidente del Parlamento europeo e voce autorevole di un cammino comune nel lungo dopoguerra del vecchio continente. Difficile trovare una sola dimensione, scegliere un’ottica esclusiva del suo itinerario. La traccia della sua vita appare come risposta alle semplificazioni sul tempo della violenza e dell’odio, sulla insopprimibile crudeltà del secolo breve. Al contrario, proprio la convivenza tra gli estremi rende tutto più complicato e interessante: distruzione e rinascita, oppressione e diritto, sterminio e destino comune. Un tempo lontano che giunge come lascito a chi è nato dopo l’età delle guerre e della catastrofe: «Mi rivolgo soprattutto alle giovani generazioni», scrive nel 2005 in apertura a una nuova edizione dell’Album d’Auschwitz, «voi sarete i cittadini di domani con la responsabilità di respingere tutto ciò che potrebbe condurre verso nuovi ingranaggi di odio e morte, verso il fallimento stesso dell’umanità. Il lavoro sulla memoria è al tempo stesso esigente e doloroso. Ma è necessario affinché si possa immaginare e costruire il nostro avvenire come cittadini di un’Europa riconciliata e più solidale».Ne aveva fatto uno dei cardini della sua vita: la memoria come sfida continua alle condizioni del presente, il contrario delle celebrazioni rituali e ripetute che cercava di avversare anche con prese di posizione che facevano discutere. Se la memoria si chiude nel recinto dell’ufficialità allora diventa asfittica e inutile, perde quella carica critica e soggettiva che permette il dialogo e il confronto tra generazioni diverse.
Nella Francia di Vichy come ebrea non può più andare a scuola. Si nasconde fino all’arresto della Gestapo, nel 1944 a Nizza — non aveva ancora compiuto diciassette anni. Con la sua famiglia transita nel campo di Drancy prima di giungere con la madre e una sorella ad Auschwitz. Viene immatricolata con il numero 78651, lo ha raccontato più volte come un punto di non ritorno della sua esistenza: «Al mattino la prima operazione era il tatuaggio. Un numero sulla pelle che dava l’impressione concreta di una cosa irrimediabile. Diventare improvvisamente un numero, mentre tutto attorno crollava. Non poteva essere l’arrivo in un campo di lavoro, non era una semplice deportazione verso una nuova destinazione. Capimmo che c’era qualcosa di profondo, d’indelebile come il nostro numero sul braccio».
Viene trasferita a Bergen Belsen dove nell’aprile del 1945 arrivano gli Alleati. Un epilogo che non si poteva festeggiare: «Quando la Liberazione è arrivata non si poteva neppure gioire, non sapevamo se eravamo in grado di sopravvivere, di farcela, di arrivare al giorno dopo. Non si teneva più alla vita, non avevamo voglia di vivere ancora ». E da lì il ritorno difficile in Francia. Un ritorno in «un paese e in un mondo che si era organizzato senza di noi. Ci sentivamo fuori, spaesati, in perenne difficoltà ».
Il destino dei sopravvissuti è quello di non essere compresi, di non trovare disponibilità e aperture. E così Simone Veil si concentra sullo studio bruciando le tappe di una carriera folgorante, laurea in legge e ingresso in magistratura nel 1956. Si dedica ai diritti dei detenuti nelle intemperie della guerra d’Algeria, alla condizione femminile nell’amministrazione penitenziaria, alle politiche per l’adozione.
La sua passione politica trova nuovi stimoli e banchi di prova. Nel 1970 è la prima donna a occupare il posto di Segretario Generale del Consiglio superiore della magistratura, pochi anni dopo la prima titolare di un dicastero: Ministro della salute nel governo Chirac (1974). Sono gli anni di maggiore visibilità e scontro, è in prima fila nelle battaglie di un movimento femminista che cerca riconoscimenti anche sotto il profilo della legislazione. Non ha dubbi allora «bisogna scrivere nuove leggi, difendere diritti e possibilità altrimenti tutto rischia di sfumare nel nulla». Si fa portavoce del riconoscimento di politiche per la contraccezione (giugno 1974) e verso la fine dell’anno presenta di fronte all’Assemblea nazionale un progetto di legge per la depenalizzazione dell’aborto. La legge passa dopo un confronto durissimo, senza esclusione di colpi, fino all’accusa di nazista indirizzata alla proponente. In un celebre discorso in Parlamento precisa che «l’interruzione volontaria della gravidanza deve rimanere un’eccezione, ultimo ricorso per situazioni senza uscita». Quando la «Loi Veil» entra in vigore — il 17 gennaio 1975 — Simone Veil viene accusata pubblicamente, derisa e insultata dagli oppositori della legge e dall’estremismo della destra conservatrice. Orgogliosa del risultato non nasconde le paure di quelle giornate: «Non potevo immaginare un simultaneo scatenarsi di odio così radicato nei miei confronti. Una mattina mentre andavo all’Assemblea Nazionale la mia macchina fu coperta di croci uncinate. La posta che ricevevo ogni giorno era un concentrato di violenze e insulti. Spesso i miei collaboratori aprivano le lettere e le cestinavano prima che le potessi vedere, tale era il livello del contenuto. Penso che avrebbero fatto bene a conservarle come fonti di quel tempo difficile».
Pochi anni e una nuova responsabilità; dopo l’elezione a suffragio nel 1979 diventa la prima Presidente del Parlamento europeo. Impegnata nella sua ultima sfida, «quella che l’aveva riconciliata con il secolo XX»: la costruzione dell’Europa, la risposta alle violenze dei nazionalismi, il cammino della cooperazione e della solidarietà. Il lascito di una generazione nella costruzione di un futuro migliore per i nuovi europei che verranno. I suoi giudizi erano diretti, spesso taglienti e scomodi. Difende la condotta della guerra degli Alleati quando da più parti — nello scorcio finale del Novecento — vengono sollevati rilievi e obiezioni sul mancato bombardamento di Auschwitz ( Una vita, Fazi Editore, 2010). Sentinella della memoria si scaglia contro le derive negazioniste di cui era diventata bersaglio (compare nelle straordinarie pagine di Pierre Vidal-Naquet Un Eichman di carta, 1980), appassionata lettrice di testimonianze catturata dalla biografia di Shlomo Venezia scrive l’introduzione alle sue preziose memorie ( Sonderkommando. Dans l’enfer des chambres à gaz, Albin Michel, 2007).
Critica verso le politiche di genere «mi sento una donna alibi» in una legislazione ancora piegata al maschile; fa sentire la propria voce nei tornanti più difficili del cammino europeo convinta che solo il destino comune di un’Europa di cittadini potesse rappresentare un valido progetto per il futuro. Sembra quasi un monito, un messaggio senza tempo o forse un grido d’allarme per il nostro presente.
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