COMMENTI
MARCO BELPOLITI
C’È UNA leggenda che circola secondo cui a fare odiare la letteratura sarebbero prima di tutto gli insegnanti. Assegnando in modo costrittivo la lettura di capolavori letterari finirebbero per far detestare ai propri studenti i libri imposti. Così succederebbe ai cosiddetti “libri delle vacanze”, romanzi e racconti dati ai ragazzi, su cui poi dovranno scrivere brevi commenti, saggi, riassunti, o quant’altro, per dimostrare di averli davvero letti. Che la scuola comporti sempre qualcosa di obbligatorio, e anche di costrittivo, è senza dubbio vero, così come la libertà di scegliere da soli le proprie letture è senza dubbio bella e forse anche salutare.
La leggenda è tale solo a priori, perché a posteriori — un dopo che si misura sull’arco degli anni — tutti, o quasi, ricordano quelle letture obbligatorie come un elemento importante della propria formazione personale, per molti l’unico momento della propria vita in cui hanno incontrato autori e titoli importanti, perché purtroppo dopo la scuola pochi leggono ancora, e non sempre i libri giusti. I tempi della scuola sono lunghi, e non si limitano all’arco di uno o più cicli, seguono i tempi dilatati della vita: sono per sempre. Quasi nessun insegnante raccoglie i frutti del proprio insegnamento. Non c’è solo questo a farmi credere che consigliare o imporre durante l’estate libri come Il barone rampante di Italo Calvino o Se questo è un uomo di Primo Levi non sia così sbagliato. Una volta Calvino ha detto che lui scriveva per un lettore più avanti di lui, più preparato. Una pedagogia di scrittura che gli ha permesso di essere ancora un autore buono per il XXI secolo, nonostante abbia incarnato perfettamente lo spirito del Novecento.
Per questo dissento da Paolo Di Paolo quando — come ha scritto lunedì su Repubblica — incita i professori a osare di più. I ragazzi, lo so per esperienza diretta come insegnante, e poi come padre, i propri libri li trovano lo stesso, siano le avventure disegnate della Schiappa o
Una serie di sfortunati eventi, libri divertenti e consoni alla loro età, per i preadolescenti, oppure L’isola del tesoro di Stevenson o Cime tempestose di Emily Brontë, più impegnativi per gli adolescenti.
Perché mai Se questo è un uomo sarebbe un libro inadatto agli studenti della terza media o delle superiori? Perché racconta del Lager? Perché è difficile? Negli anni Settanta Levi andava nelle scuole medie inferiori a rispondere alle domande degli studenti che avevano letto il suo libro. Ad anni di distanza le persone si ricordano di quella prima lettura, che è seguita a riletture fatte poi da adulti, perché i libri sono diversi secondo le età in cui si leggono. Nella scuola dove ho insegnato facevo leggere ai ragazzi di prima superiore Pinocchio e poi in quinta lo stesso libro: era un libro diverso.
C’è poi il tabù del “piacere di leggere”. Nasce da una lettura sbagliata del libretto di Roland Barthes. Un fraintendimento, che ha prodotto molti luoghi comuni. La lettura non è solo piacere, ma anche fatica. Non penso che il compito di un insegnante sia quello di conquistare i ragazzi, o almeno non è solo quello. C’è dell’altro. Mi sono trascritto le parole di un articolo con cui Calvino aveva iniziato la collaborazione proprio a questo giornale: «non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo. Credo nella forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo». Sono passati tanti anni, eppure credo che valga ancora, così come valeva per il priore di Barbiana, don Lorenzo Milani, di cui si celebra in questi giorni l’anniversario. Leggere per capire, leggere per sapere, leggere per cambiare, leggere per essere diversi.
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