COMMENTI
TIMOTHY GARTON ASH
ORMAI la sfida è aperta: siamo di fronte alla globalizzazione dell’antiglobalizzazione, a un fronte popolare di populisti, a un’Internazionale di nazionalisti. “Oggi gli Stati Uniti, domani la Francia”, twitta Jean-Marie Le Pen. Sarà dura sconfiggerli in patria e all’estero, e forse ormai dobbiamo guardare alla Germania invece che all’America come al “leader del mondo libero”. Ma li sconfiggeremo. Nella Russia di Vladimir Putin vige un regime molto simile al fascismo.
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LA TURCHIA di Recep Tayyip Erdogan sta rapidamente superando il confine tra democrazia illiberale e fascismo, mentre l’Ungheria di Viktor Orbán è già una democrazia illiberale. In Polonia, Francia, Olanda, Gran Bretagna e ora negli Stati Uniti, dobbiamo difendere il confine tra democrazia liberale e illiberale. In Gran Bretagna significa difendere l’indipendenza della magistratura, la sovranità del Parlamento e l’imparzialità della Bbc. Negli Usa vedremo al banco di prova uno dei sistemi liberali e democratici di divisione dei poteri più forti e antichi. Anche se i repubblicani hanno la maggioranza al Congresso e il presidente Donald Trump procederà a nomine politiche di fondamentale importanza alla Corte Suprema, non per questo potrà fare tutto ciò che vuole.
In tutti questi populismi nazionalisti si individua chiaramente l’ideologia secondo la quale la volontà espressa direttamente dalla “gente” trionfa su ogni altra fonte di autorità. E il leader populista — o la leader, nel caso di Marine Le Pen — si presenta come unica voce della gente. Lo slogan di Trump “Io sono la vostra voce” è un classico esempio di populismo, come del resto la prima pagina del
Daily Mail, che bolla come “nemici del popolo” i tre giudici britannici che hanno sentenziato che il Parlamento deve esprimersi sulla Brexit. E lo è la frase del primo ministro turco che in risposta all’accusa mossa dall’Ue alla Turchia di aver superato i limiti con la brutale repressione della libertà dei media ha detto: «I limiti li decide la gente».
Ma attenzione, “la gente” —
Volk sarebbe forse il termine più adatto — è in realtà solo una parte della popolazione. Il giochetto lo ha svelato Trump con una battuta in un comizio: «Quello che conta è unire la gente, perché gli altri non contano ». E per altri non intendeva i curdi, i musulmani, gli ebrei, i profughi, gli immigrati, i neri, le élite, gli esperti, gli omosessuali, i Sinti e i Rom, i cosmopoliti, i metropolitani i giudici gay eurofili. Per Nigel Farage dell’Ukip la Brexit è la vittoria della gente comune, per bene, della gente vera — quindi il 48% degli elettori che ha votato al referendum non è gente comune, né per bene, né vera.
Cosa ci insegna la storia a proposito di questi fenomeni che si verificano a ondate più o meno in contemporanea in molti luoghi diversi, in varie forme nazionali e regionali, ma ciò nonostante presentano caratteri comuni? Il populismo nazionalista oggi, il liberismo globalizzato (o neoliberismo) negli anni Novanta, il fascismo e il comunismo negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, l’imperialismo nell’Ottocento. Forse possiamo trarne due lezioni: che in genere ci vuol tempo perché questi fenomeni si creino e tornare indietro (se c’è la volontà di annullarli) richiede coraggio, determinazione, coerenza, bisogna creare un nuovo linguaggio politico e dare nuove risposte politiche a problemi reali.
Ne è un ottimo esempio l’evoluzione del connubio tra economia di mercato e stato sociale caratteristico dell’Europa occidentale dopo il 1945. Questo modello, che infine vinse le ondate del comunismo e del fascismo, ebbe bisogno del genio intellettuale di John Maynard Keynes, della competenza politica di un William Beveridge e dell’abilità di un Clement Attlee. Nelle versioni adottate altrove il ruolo è attribuibile ad altri personaggi. Ma per dar vita a un nuovo modello ci vuole tempo.
Dobbiamo quindi prepararci a una lunga battaglia, che avrà forse addirittura carattere generazionale. Non siamo ancora in un “mondo post-liberale”, ma potremmo arrivarci. Le forze alla base del fronte popolare del populismo sono potenti, i partiti tradizionali spesso deboli, e questi fenomeni non si annullano da un giorno all’altro. Tanto per cominciare dobbiamo difendere il pluralismo in patria. Bisogna poi comprendere le cause economiche, sociali e culturali del voto populista. Non solo la sinistra, ma i progressisti, i conservatori moderati e i vari opinion leader devono trovare un nuovo linguaggio per arrivare sia a livello emotivo che concreto a quella ampia fetta di elettorato populista non irrimediabilmente xenofoba, razzista e misogina. (Evitare di definirli un «cesto di miserabili » è già un buon punto di partenza). Ovviamente le parole non basteranno da sole. Quali sono le politiche giuste? Davvero sono gli accordi commerciali e l’immigrazione a far calare l’occupazione o è colpa soprattutto della tecnologia? In quest’ultimo caso cosa si può fare?
All’estero la sfida principale sta nell’impedire che vengano erosi gli elementi esistenti dell’ordine liberale internazionale — i sudati accordi sul cambiamento climatico, ad esempio, e gli attuali accordi di libero scambio. A livello teorico il presidente cinese Xi Jinping potrebbe vedere di buon occhio il mondo di Trump, fatto di Stati sovrani, forti, aggressivi, nazionalisti, ma in pratica entrambi i leader devono ammettere che il ritorno al nazionalismo economico degli anni Trenta (Trump in campagna elettorale ha promesso dazi del 45% sulle importazioni cinesi) avrebbe conseguenze disastrose per tutti. L’unico pregio dell’Internazionale di nazionalisti è di essere in fondo una contraddizione in termini.
Dobbiamo anche sperare che a improntare la politica estera ed economica della nuova amministrazione siano americani seri e preparati, per quanto Trump sia disgustoso sotto il profilo morale. È ora di tapparsi il naso e mettere in pratica “l’etica di responsabilità” teorizzata da Max Weber. In ogni caso sarà una presidenza smargiassa, inaffidabile e imprevedibile.
Sulle altre grandi democrazie del mondo graverà quindi una responsabilità maggiore: mi riferisco alle molteplici democrazie nazionali in Europa, ma anche a Canada, Australia, Giappone e India. Se in Europa consideriamo vitale che gli Stati baltici siano protetti da ogni possibile aggressione da parte della Russia di Putin, dobbiamo adoperarci a questo fine attraverso la Nato e l’Ue. Non possiamo contare su Trump, che elogia Putin. Se noi europei reputiamo importante mantener viva e indipendente la democrazia ucraina dobbiamo fare da soli. Visto che la Gran Bretagna si è autoesclusa, in conseguenza della sua versione di populismo nazionalista, una responsabilità particolare grava sugli elettori francesi e tedeschi. Se alla fine del prossimo anno avremo Alain Juppé come presidente francese e Angela Merkel rieletta cancelliera, l’Europa riuscirà ancora a fare la sua parte.
La reazione di Merkel all’elezione di Trump è stata finora di gran lunga la più degna. «La Germania e l’America», ha dichiarato, «sono unite da valori di democrazia, libertà e rispetto della legge e della dignità umana, indipendentemente dalle origini, dal colore della pelle, dalla religione, dal genere, dall’orientamento sessuale o dalle opinioni politiche. Offro al prossimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump stretta collaborazione sulla base di questi valori». Magnifico, e tra l’altro è un risultato a lungo termine del 9 novembre 1989. In genere al presidente degli Stati Uniti ci si riferisce come al “leader del mondo libero” e di rado senza ironia. Sono tentato di dire che questo appellativo oggi lo merita Angela Merkel.
Traduzione di Emilia Benghi
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