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L’ABBRACCIO CON BREXIT

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FEDERICO RAMPINI
NEL suo primo gesto da statista, Donald Trump reinventa l’asse storico Washington-Londra. In un’accezione ben diversa dal passato: movimentista, insurrezionale, rivoluzionaria? Si candida così a diventare il capo della Nuova Internazionale, la santa alleanza tra i leader del populismo anti-global e anti-immigrazione. Lo fa con tempismo, telefonando subito alla premier britannica Theresa May, la prima leader europea a cui il neo-eletto presidente degli Stati Uniti decide di parlare.
SEGUE A PAGINA 43
LADY Brexit, appunto. Nella lunga e calorosa telefonata Trump comincia col ricordare le origini (parzialmente) scozzesi dei suoi antenati. Poi passa al sodo: «Il Regno Unito è un luogo molto, molto speciale per me e per l’America. Questa relazione speciale diventerà ancora più forte». Segue l’invito formale a Theresa May «perché venga in visita a Washington il più presto possibile». È il primo governante straniero a cui Trump rivolge un simile invito, quando ancora non si è neppure insediato alla Casa Bianca, appena 48 ore dopo il suo trionfo elettorale. Fra i leader esteri con cui il presidente- eletto ha avuto contatti così precoci, l’unica europea nella top list è May (tra i non-europei spicca Benjamin Netanyahu, premier israeliano).
Il gesto conferma quello che di Trump abbiamo appreso durante la campagna elettorale: l’uomo ha una sua peculiare padronanza della comunicazione, anche nelle provocazioni segue sempre una logica, calcola gli effetti, sa il messaggio che vuole trasmettere. Nel caso della May non è una provocazione ma una spettacolare reinvenzione. L’asse angloamericano è una costante della geopolitica mondiale dai tempi di Roosevelt-Churchill nell’alleanza contro i nazifascismi. Il Regno Unito è sempre stato l’interlocutore più affine ai valori americani dentro la Nato e dentro l’Unione europea. Ci furono intese personali fortissime tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher all’insegna della rivoluzione neoliberista; fra Bill Clinton e Tony Blair nella Terza Via del riformismo moderato; ancora fra Tony Blair e George Bush per la sciagurata invasione dell’Iraq. Quell’asse era entrato in crisi con Brexit. Barack Obama andò a Londra apposta per appoggiare la campagna di chi voleva rimanere nell’Unione europea; vinse Brexit e May sembrava destinata a un ruolo marginale, in castigo. Altri speravano di ereditarne la posizione: Matteo Renzi in particolare.
Il sisma elettorale americano sconvolge tutti gli scenari. Trump è veloce nell’afferrare l’opportunità di proporsi in un ruolo di punta non solo all’interno del suo paese ma sulla scena mondiale. Già nella serata della vittoria, al suo quartier generale newyorchese, aveva lanciato segnali d’intesa verso Vladimir Putin, e (meno scontato) anche verso la Cina. A May lui offre subito “la relazione speciale”. Il precedente più significativo in questo contesto è proprio Reagan- Thatcher, due leader che guidarono la riscossa dei liberisti e del Big Business nel mondo intero. Trump vede in grande, sa che la sua elezione è sbocciata nel momento in cui forze populiste avanzano in tutto l’Occidente. Nonostante che la sua preparazione in politica estera sia a dir poco superficiale — lui stesso disse con candore “quel che devo sapere lo imparo dai talkshow” — gli è chiaro che a lui guardano con grande interesse i vari nazionalisti e protezionisti europei. Marine Le Pen è ansiosa di salire sul suo carro per farsi trainare verso la conquista dell’Eliseo. Le destre al potere nell’Europa dell’Est, i partiti anti- immigrazione, anti-euro, anti-globalizzazione, possono trovare in Trump una sponda e un vate. Di tutti, la più rispettabile di gran lunga è proprio May che governa una delle più antiche democrazie del mondo, e deve pilotarla nella delicata transizione fuori dall’Ue. Di colpo gli inglesi di Brexit da marginalizzati diventano centrali, nella versione nuova dell’atlantismo. Tutti gli altri, da Renzi a Merkel a Hollande, dovranno faticare per adattarsi alle nuove mappe della politica internazionale.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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