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L'euro è insostenibile se l'Europa non cambia

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L’economista di Chicago Booth
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«Senza una politica fiscale comune, meglio una seconda moneta per la Germania e i Paesi del Nord. Basta elemosinare flessibilità»


Di duri e puri del liberismo ne sono rimasti pochi e lui sta as- serragliato nel loro fortino, la Scuola Booth di Business dell’Università di Chicago. Luigi Zingales, 53 anni, padovano, bocconiano, economista al Mit di Boston prima di approdare nella città di Barack Obama sulle rive del Lago Michigan, affronta in questa intervista i temi dei suoi libri più noti: Salvare il capitalismo dai ca- pitalisti (Einaudi), che ricorda una frase di Montanelli secondo cui «il problema del capitalismo sono i capitalisti» e Europa o no (Rizzoli), da cui è nato il suo blog www.europaono.com.

Secondo l’economista Geminello Alvi l’economia è gonfiata da una serie di bolle dagli anni di Bill Clinton alla Casa Bianca, che ne pensa?

«Ci sono state bolle, ma oggi il problema maggiore a livello mondiale è che il risparmio totale eccede la domanda di investimento, per questo i tassi sono così bassi. Il tasso d’interesse altro non è che il prezzo che uguaglia la domanda di investimento all’offerta di risparmio. Con i tassi bassi, il rischio di bolle speculative è elevato».

La speculazione è la grande malattia della nostra epoca oppure qual è?

«No, il problema più grande è l’influenza che le grosse imprese hanno nello scrivere le regole del gioco. È come se Higuain non fosse solo giocatore, ma anche arbitro».

Regole indipendenti limiterebbero la speculazione?

«Se lei compra una casa o un quadro nell’aspettativa che il prezzo di questi beni salga è un investitore o uno speculatore? Se per speculatori intendiamo solo coloro che di professione comprano e vendono titoli o beni senza alcun desiderio di detenere o consumare questi beni, costoro svolgono un ruolo fondamentale in un’economia di mercato. Senza la speculazione i prezzi sarebbero molto più erratici e le bolle finanziarie più pronunciate».
Trova anche lei come Alvi che ci sia una specie di accordo paradossale non scritto tra speculazione e sinistre?
«Sono d’accordo che paradossalmente possa esistere una co- munanza di obiettivi tra la grande impresa e la sinistra. Bisognerebbe approfondire poi su cosa si intenda oggi per sinistra. Guardi per esempio cosa avviene negli Stati Uniti: la grande finanza è compatta nel votare Hillary Clinton».

Come mai ora si alzano i tassi Usa?

«Perché l’economia americana sta crescendo, la domanda di investimento sale e quindi il prezzo di equilibrio del capitale sale. Se la Federal Reserve non aumentasse i tassi, questo eccesso di domanda si tradurrebbe in inflazione».



Gli Stati Uniti che Europa desiderano?
«Innanzitutto un’Europa stabile».
E che euro vogliono?
«Un euro stabile».
Se lei fosse a Bruxelles e avesse la bacchetta magica che Europa disegnerebbe?
«Coordinerei un’uscita della Germania e dei paesi satelliti dall’euro, per formare un euro del Nord Europa. È dal 2010 che sostengo che due euro sarebbero meglio di uno».
E Renzi cosa può fare con l’Unione europea?
«Smettere di elemosinare decimali di flessibilità e forzare un dibattito serio sul futuro dell’euro. La proposta di Padoan sull’assicurazione europea sulla disoccupazione è un ottimo primo passo. Su questa proposta va condotta la vera battaglia per la sopravvivenza dell’Europa, altrimenti meglio l’uscita della Germania e di altri».
E in Italia?
«Smettere con manovre ad hoc. Tagliare la spesa pubblica improduttiva e ridurre in maniera permanente le imposte su imprese e lavoro».
Lei ha fatto parte di alcuni consigli d’amministrazione in imprese italiane, ma ha mollato. Come mai?
«Ho rappresentato per sette anni gli investitori istituzionali in Telecom. Dopo tanto tempo ho trovato giusto non farmi rinnovare, perché un ricambio al vertice è utile, ma soprattutto perché se eletto avrei perso la qualifica di indipendente e non volevo rimane- re in consiglio da non indipendente. Per quanto riguarda l’ultima esperienza in Eni, sono stato nominato in consiglio dal Governo e ho accettato pensando ci fosse una visione condivisa su come la società andava gestita. Quando mi sono reso conto che il consiglio non condivideva questa visione, ho preferito farmi da parte. E non lo considero affatto mollare, anzi


Cosa manca alle imprese italiane per crescere?

«Manager di qualità e capitali. Con qualche notevole eccezione, la nostra cultura manageriale è ferma all’Ottocento e il nostro mercato dei capitali anche. Anzi, all’inizio del Novecento era più sviluppato».
Come vede l’evolversi del mondo del lavoro?
«Il progresso implica il cambiamento. Molti dei lavori che facciamo oggi non erano neppure pensabili quindici anni fa».
Ma continuerà la deindustrializzazione?
«In Italia e in Europa sì».
L’economia digitale toglie posti di lavoro o li crea?
«Calcolo difficile da fare, ma qualsiasi sia la risposta cosa si può fare? Abolire l’innovazione per legge?».
Quali rischi intravede sul tema del lavoro e quali opportu- nità?
«Che la nostra scuola non prepari abbastanza i giovani per l’economia del futuro».
Ci aspettano ondate migratorie notevoli. Dal punto di vista economico sono un bene o un male?
«Dal punto di vista economico, sono un beneficio netto. Ma non di solo pane... Molti cittadini italiani ed europei si sono espressi con- tro l’immigrazione per motivi socio-culturali. Possiamo non essere d’accordo, ma in una democrazia non possiamo non tenerne conto».
Arriviamo al resto del mondo: le economie emergenti sono davvero importanti o alla fine si sono rivelate fragili, dalla Cina al Brasile, e contano solo gli Stati Uniti?
«La Cina è diventata una superpotenza mondiale. Rischia una crisi ciclica, ma crisi o non crisi, rimane una superpotenza. Il Brasile non è riuscito a fare il salto di qualità. Ma data la dimensione della sua popolazione, non può essere ignorato».
Come vede il rapporto economico e di debito tra Stati Uniti e Cina?
«Le due economie sono diventate molto integrate, quindi sono condannate ad andare d’accordo».
Per lei che vive a Chicago quali sono i pregi economici americani e i difetti?
«Il maggior pregio dell’economia americana è la sua capacità di innovazione. Il maggior difetto, l’influenza del potere economico sulla politica».
Come cambierebbe la politica economica se vincesse Donald Trump?
«Difficile a dirsi. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Paradossalmente l’esito più probabile è che Trump aumenti la spesa pubblica in infrastrutture e difesa e riduca le imposte, quindi un grande stimolo keynesiano».
E se vincesse Hillary Clinton cosa farebbe di diverso da Barack Obama? 
«Niente». 

 

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