4/10/2016
CULTURA
MICHELE SERRA
Uno scrittore non va giudicato dalla faccia o dal nome ma dal libro A PROPOSITO del disvelamento dell’identità di Elena Ferranteè stato già detto da più parti che il metodo investigativo “follow the money”, evidentemente molto intrusivo, si addice a un malavitoso o a un evasore fiscale. La latitanza fisica di un autore è, al cospetto dell’opinione pubblica, altrettanto grave e perseguibile? A giudicare dai molti attestati di solidarietà che i lettori di Ferrante indirizzano al suo editore, e dagli umori che si raccolgono in queste ore sul web e di persona, l’opinione pubblica è invece, nel merito della vicenda, perlomeno divisa. Mi annovero tra quelli che ci sono rimasti male. Un poco perché il diritto all’assenza è, nella società presenzialista, uno dei più precari e dei più violati: dunque dei più ammirevoli. Un poco perché lo smascheramento di Ferrante mi sembra perfettamente coerente con un processo di svalutazione del testo, e di sopravvalutazione del contesto, che è uno dei grandi mali culturali della società mediatica.
Quali sono gli effetti del presunto svelamento dell’identità della scrittrice? Forse nessuno per i suoi tanti lettori che non lo percepiscono come un problema. A dare un nome e un cognome (completo di visure catastali: le “prove del reato”) a Elena Ferrante non è stata una testata di gossip. È stato un pool giornalistico prestigioso, l’inserto culturale del Sole 24 ore e la New York Review of Books tra gli altri, anzi prima degli altri e con maggiore responsabilità editoriale, in quanto “tecnicamente” vocati alla materia letteraria. Ma in una nota diffusa nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione dell’inchiesta, l’editore di Ferrante (e/o) contrapponeva, diciamo così, alla visura catastale a carico della sua autrice una visura editoriale a carico del Sole 24 ore e del suo inserto di cultura. Facendo presente, in un breve comunicato, il «silenzio con cui il Domenicale accoglie da almeno un lustro l’opera di Elena Ferrante, silenzio rotto solo poche settimane fa con un taglio basso di Goffredo Fofi». Al netto di eventuali malumori di un piccolo editore che si sente trascurato da un grande giornale, significa che lo stesso quotidiano che pubblica, nel suo inserto letterario, un’inchiesta sensazionale sull’identità di Ferrante, è accusato di avere ignorato la sua opera, e proprio negli anni di maggiore successo. Le scelte editoriali, ovviamente, sono libere e intangibili (almeno quanto dovrebbe esserlo il diritto all’anonimato). Ma ne discende che anche in questo caso il testo, ovvero i libri di Elena Ferrante, ha avuto molto meno rilievo del contesto, ovvero il “giallo” del suo nome anagrafico. Dico “anche in questo caso” perché la tendenza è generale e dilagante, e non risparmia nessuno. Vanno fortissimo il dietro le quinte, il gossip, bene che vada la registrazione (o la costruzione?) di polemiche d’ambiente o i rendiconti preoccupati della eterna crisi dell’editoria. Figuriamoci poter rivelare il “vero nome” di uno dei più importanti scrittori italiani; e più letti nel mondo. Quanto ai libri, il famoso “tramonto della critica” è (anche) un eccellente pretesto per parlarne sempre meno per ciò che i libri sono — scrittura allo stato puro — e sempre di più come “casi” o come pezzi di ricambio utili da spendere nel dibattito socio-politico. I libri, bene che vada, come sintomi di tendenze sociali o mode culturali; male che vada, come molto trascurabile pretesto per parlare di tutt’altre cose. Fortunatamente il pubblico, almeno in questo caso, se la cava benissimo da solo. Ferrante ha milioni di lettori, con una battuta (e per far capire che non si tratta di una polemica aziendalista) più del Sole 24 ore e di Repubblica messi insieme. E avere milioni di lettori, se non è una garanzia di qualità (esistono anche best-seller molto brutti) è però garanzia di lettura. Di un rapporto diretto, non intermediato, con chi legge quello che hai scritto. Vuol dire che quei libri, ovvero quelle parole e solo quelle, sono stati molto letti, e in qualche modo messi in salvo da ogni lettore a suo modo: per un lettore, esattamente come per uno scrittore, un libro è solo le parole che lo compongono. L’inesistenza dell’autore, nel caso di Ferrante (ma penso anche alla disperata e paradigmatica fuga dai media di Salinger) non è percepita come un “problema” dai suoi lettori. Per essere lettore, così come per essere scrittore, basta l’esistenza del libro.
PS — Tra le ricadute della “rivelazione”, la più prevedibile è il solito piccolo florilegio di commenti risentiti, ai blogger non sfugge niente, vedi, lo sapevo io, lavora nel dorato mondo dell’editoria, è una della casta, ha la casa in Toscana, piove sul bagnato, è nel giro giusto, il marito è scrittore, per questo ha avuto tanto successo… E io che mi ero illuso che potesse essere una parrucchiera, o una suora, o un portantino dell’ospedale… Invece è una traduttrice dal tedesco, si sa quanto potere hanno, già in partenza, i traduttori dal tedesco. E chi ci assicura che tutta questa baraonda sul nome non sia una montatura pubblicitaria per vendere ancora più copie e comperarsi una seconda casa in Toscana? La ricaduta meno prevedibile è invece che anche io, nel mio piccolo, sono dispiaciuto di non poter fare più congetture poetiche sulla “vera identità”, e appunto pensarla anche io parrucchiera o suora o portantino dell’ospedale. Era più interessante il silenzio, il non nome, la non faccia, le non fotografie. Ho già nostalgia di Elena Ferrante innominata. Continuerò sempre a non nominarla.