CULTURA
Nel suo nuovo libro Corrado Augias indaga sui segreti della città turca
CORRADO AUGIAS
La brutta vicenda del presidente turco Recep Tayyip Erdogan detto il Sultano si vede meglio collocandola contro lo sfondo della storia di quel Paese, in particolare della sua città simbolo: Istanbul. Antichissimo insediamento, con una posizione geografica di incredibile fascino, a cavallo di due continenti, unica città al mondo ad aver cambiato nome tre volte (Bisanzio e Costantinopoli prima dell’attuale), si può dire che Istanbul – e l’intero Paese – non abbiano mai conosciuto una vera democrazia consolidata. Gli imperatori romano- bizantini prima, poi i sultani. Più di dieci secoli di civiltà bizantina, più di cinque di civiltà islamico- ottomana. Solo la strenua determinazione di un
valoroso ufficiale, Mustafa Kemal poi detto Atatürk (padre dei turchi) riuscì nel 1923 a istaurare una repubblica, anche se di stampo autoritario, la cui storia è stata più volte compromessa da tentativi di golpe, la cui fragilità è stata confermata dagli avvenimenti delle ultime settimane.
Di questi elementi è fatta la fisionomia di una città che del suo drammatico passato conserva molte tracce a volte evidenti e famose come per esempio la spettacolare Santa Sofia o i dedali di Topkapi, ma che altre volte si rivelano solo a chi sa come cercarle. Proprio perché nascoste e poco conosciute, queste ultime sono probabilmente le più affascinanti. Come Roma, Istanbul è una città che bisogna saper scoprire. A chi sa come interrogarla mostra le sue stratificazioni, le molte vite, l’impronta dei successivi regimi politici che l’hanno retta non meno che delle diverse culture che hanno impresso il loro segno sugli edifici, le mura, i monumenti, perfino sugli spazi aperti come l’ippodromo, o le rive stesse del Mar di Marmara e del Bosforo; in altre parole questa è una città che va scrutata non soltanto in estensione ma anche in profondità.
Istanbul del resto, di nuovo come Roma, stimola l’indagine, spinge chiunque abbia voglia di guardarla a saperne di più: origini, sviluppi, dominazione, guerre, religioni, imprese, affari, declino. Quando, alla fine di maggio del 1453, le truppe di Mehmet II, agitando la verde bandiera del profeta, riuscirono a strapparla agli imperatori di Bisanzio, trovarono una città e una popolazione esauste, una cultura ripiegata su se stessa, un antico impero allo sbando. Nonostante questo, la sua conquista fu una delle imprese militari che sanno di leggenda non meno di Annibale che valica le Alpi con gli elefanti o dello sbarco alleato in Normandia nel 1944. Raccontarla è un piacere, leggerla una continua sorpresa. Lo stesso vale per l’harem, luogo di conturbanti fantasie nell’immaginario occidentale, nella pittura orientalista, nei film di Hollywood. La realtà era diversa, visitarne gli ambienti serve a chiarirla.
L’harem ospitava le mogli e le figlie del sultano, il loro seguito, i servitori, i fornitori, gli eunuchi, gli schiavi e le schiave. La reggitrice dei luoghi era la Validé Sultan, la madre del sultano con funzioni paragonabili a quelle della “regina madre” in una corte europea. In un ordine gerarchico di fatto, il secondo posto era occupato dalla moglie del sultano, la donna che gli aveva dato un figlio maschio. Di rispetto e considerazione godevano anche le concubine e, a un livello più basso, le odalische o favorite, in pratica le amanti del sultano. Questa gerarchia femminile era centrata su due funzioni, una politica e dinastica, l’altra più privata: soddisfare la sensualità e i capricci dell’uomo più potente dell’impero. La convivenza di un numero così alto di persone – circa trecento, per lo più donne – all’interno d’uno spazio chiuso, richiedeva regole precise per garantire l’ordine, l’adempimento degli incarichi, lo svolgimento delle funzioni quotidiane. La disciplina e l’organizzazione erano affidate a delle capo- squadra con compiti precisi: la Padrona dei Fiori, la Padrona delle Tuniche, la Custode dei Bagni, la Tesoriera, la Lettrice del Corano, la Custode del Caffè, la Custode delle Vesti e altre ancora. Ai loro ordini lavoravano delle apprendiste, ragazze rapite dai loro villaggi, in genere nell’Asia minore (Caucaso, Georgia, Armenia, Palestina), ma anche dalle coste meridionali dell’Italia, o vendute dalle loro stesse famiglie spinte dalla miseria, o mandate al sultano come atto grazioso dai governatori delle provincie. Al momento di entrare nell’harem, tutte le ragazze dovevano dimenticare nazionalità, lingua, religione, persino il proprio nome, che veniva sostituito con un nome nuovo, scelto dalla Validé o da una sua incaricata. Da quel momento erano solo schiave del palazzo, obbligate a svolgere i compiti assegnati, dai più umili a quello supremo di soddisfare il sultano (se la fortuna le avesse assistite), con il massimo dell’impegno. Le punizioni per le indisciplinate erano severe, pote- vano arrivare fino alla condanna capitale. Le ragazze dei più bassi ranghi dormivano in apposite camerate in gruppi di dieci o più. La sorvegliante imponeva che qualche luce restasse accesa durante la notte per impedire o ridurre i rapporti saffici. Al risveglio, il primo dovere era la pulizia dell’ambiente e dei giacigli.
Salendo di grado, le prescelte avevano diritto a una stanza che diventava sempre più ricca di pari passo con il loro avanzamento. Acquisivano il diritto di avere a loro volta delle schiave, pur restando schiave esse stesse. Le più belle o più dotate venivano istruite nelle arti gentili della danza o della poesia, nella pratica di uno strumento (per lo più a corde) oltre che naturalmente nelle sottigliezze della sensualità. Pur restando delle prigioniere, le più fortunate potevano condurre una vita in apparenza piacevole. Esaurite le piccole incombenze quotidiane, disponevano di molto tempo libero per sé, per la cura della persona, per i pettegolezzi, per qualche gradevole effusione lesbica, complici i vapori e l’alta temperatura dell’hammam o bagno turco. Se si visita l’harem avendo in mente organizzazione e funzioni, gli ambienti per lo più vuoti riprendono per così dire vita, ambulacri, stanze e stanzette, celle lugubri e ambienti fastosi diventano riconoscibili, mostrano la loro storia.
Per secoli Istanbul è stata una meta ricercata, talvolta fraintesa, altre amata, sempre guardata con stupore a cominciare dalla prima apparizione del suo straordinario profilo contro il cielo d’Oriente. Quel crescente di luna, che non a caso figura sulla bandiera della Repubblica turca, è e non è la stessa luna che possiamo vedere in un qualunque cielo notturno europeo; quel particolare profumo della città, i suoni, i richiami dei marinai, le luci riflesse sull’acqua, sono e non sono le stesse di un porto del nostro continente. Li rende diversi la sensazione indefinita che una volta si chiamava esotismo e che malgrado tutto sopravvive, anche se in parte cancellata dall’approssimazione con la quale tante città, compresa questa, sono offerte dal turismo di massa. La buccia dei monumenti la si può guardare benissimo da casa, comodamente seduti davanti alla Tv o al computer. Perché valga la pena di spostarsi, arrivare in un posto lontano, vedere – e non solo guardare – quello che c’è da vedere, allora il viaggio va fatto in altro modo. Un libro come questo ambisce ad essere un antidoto all’appiattimento; raccontare le vicende dei luoghi significa scoprirne la dimensione segreta, nascosta sotto la patina usurante dell’abitudine.
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Dagli imperatori bizantini ai sultani non ha mai avuto una democrazia consolidata La sua conquista nel 1453 fu tra le imprese militari che sanno davvero di leggenda Per secoli è stata una meta ricercata talvolta fraintesa e sempre vista con stupore
IL LIBRO
I segreti di Istanbul
di Corrado Augias ( Einaudi, pagg. 260, euro 19) L’autore lo presenterà al Festival di Mantova giovedì alle 19.15 al Palazzo Ducale e sabato 17 a Pordenonelegge ( Teatro Verdi alle 16)