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Lo smart working è una svolta che può disegnare inediti modelli sociali. Con quali rischi? Ne abbiamo parlato con una sociologa e un sindacalista. E con chi ha deciso di ripensarci



Possiamo dirlo english e chiamarlo smart working, che fa molto startup. Oppure giocare agli autarchici e dirlo lavoro agile. Ma la sostanza è la stessa. Il lavoro «fuori dallo spazio del lavoro» crescerà sempre di più surfando sul tappeto magico delle paroline produttività, ottimizzazione e flessibilità. È una rivoluzione che affascina e seduce: uno studio presentato all'ultimo World Economic Forum prevede che nel 2020 più della metà di noi lavorerà da «remoto», e un sondaggio dello scorso febbraio del Sole 24ore rivela che oltre il 57 per cento degli italiani vorrebbe lavorare da casa. Più che una tendenza è una quasi certezza, dunque. Ma se il quadro normativo si va definendo, tra firme di protocolli e progetti pilota, di questo cambiamento epocale si discute solo in termini di regole e diritti, saltando a piè pari il suo significato e i relativi rischi culturali.

Maria, 31 anni, laurea in ingegneria e master in economia aziendale, ha lavorato da casa per tre anni per una società di servizi con sede a Londra. Quella che racconta è una storia esemplare proprio perché non rientra nella categoria dello sfruttamento: nessun capolarato digitale, paga buona e niente reperibilità ossessiva. Eppure. «All'inizio ero entusiasta. La gestione del mio tempo vinceva su tutto. Poi ho cominciato ad avvertire un malessere, che non era isolamento né ambiguità tra spazio lavorativo e privato. Era qualcosa che riguardava la mia identità sociale». Oggi lavora nell'ufficio marketing di un'altra azienda: esce alle 9 e rientra alle 18. Nel frattempo è anche diventata mamma, la sua vita è meno comoda ma il malessere è sparito. «Ho smesso con il telelavoro quando ho compreso la natura dello scambio che avevo accettato: la libertà di gestire il tempo, ma anche una inesorabile riduzione a "funzione" della mia persona».

È il lato oscuro dello smart working, nascosto tra i fuochi d'artificio della rottura con i modelli produttivi del Novecento e obnubilato dagli innumerevoli vantaggi pratici che offre a tutti gli attori in campo, dirigenti e sottoposti. Perché la crisi dello «spazio lavorativo» come luogo sociale è un cambio di paradigma che cambia la parola stessa lavoro, rendendola sinonimo di produzione mentre il lavoro è (era?) molto di più.

«Sotto metafora, è come derubricare l'esercizio della memoria ad una meccanica consultazione sul web. Sembra la stessa cosa, ma non è così» dice Fulvio Fammoni, presidente della fondazione Di Vittorio della Cgil. Secondo il quale il telelavoro non va demonizzato, al contrario «bisogna attrezzarsi per la sfida delle nuove tecnologie, visto che siamo comunque in ritardo. Ma si deve fare attenzione al quadro complessivo. Nel momento in cui c'è chi teorizza il lavoro come "merce", puro fattore della produzione, la individualizzazione del processo aumenta le opportunità ma anche i fattori di rischio».

In altre parole, spiega Fammoni, l'espansione dello smart working ribadisce «l'urgenza di non sottovalutare in nome delle esigenze produttive il ruolo di coesione sociale del lavoro, soprattutto in presenza di una grave crisi dell'economia e della rappresentanza». Insomma, ai tempi della interazione socio-digitale il lavoro dovrebbe essere anche una risposta ai processi di individualizzazione, come non si stancava di ricordare ai tempi Bruno Trentin: «Mai disgiungere il lavoratore dalla persona, mai dimenticare che il lavoro è un elemento fondamentale della propria identità sociale».

E allora: si costruisce identità e vera cittadinanza senza gli altri, a prescindere dal corpo e dalla moltitudine di segnali relazionali che la presenza fisica dell'altro garantisce? Sì e no, secondo la sociologa del lavoro Chiara Saraceno. «È necessario essere consapevoli di entrambi i lati del problema. La libertà individuale che si può trovare attraverso il lavoro da "remoto"è una grande conquista; ma sarebbe sciocco non vedere, contestualmente, che questa libertà si scambia con una minore forza collettiva. Tenere presente l'intero quadro significa, per esempio, immaginare e promuovere un modello in cui lo spazio sociale e fisico del lavoro sia preservato e valorizzato, anche per i lavoratori che svolgono una parte della loro attività da casa o da strutture di co-working (uffici condivisi)».

Si tratta dunque di garantire l'equilibrio tra le diverse modalità produttive, sia per il singolo che nel mercato del lavoro, perché altrimenti «si rischia una sorta di dualizzazione sociale, divaricando chi lavora nello spazio della cittadinanza da chi lo fa nel proprio spazio privato. Due mondi che col tempo, se non si assume un punto di vista di sistema, comunicheranno sempre meno tra loro». Ma appunto, trattasi di rischio e non di destino. E pure se viviamo in un'epoca in cui il concetto di innovazione è diventato un imperativo ben al di là dei suoi scopi e dei suoi contenuti, spetta a tutti – imprese, sindacati, lavoratori – evitare che quella del futuro sia una società di persone più "comode" ma anche più innocue perché prive di un fattore decisivo della propria socialità.

Conclude Fammoni: «Le nuove forme del lavoro sono e saranno una opportunità. A patto che il sistema della nuova produzione non diventi la base culturale di un nuovo modello di società, nella quale si condivide molto sul web ma non più il valore sociale del lavoro». La tutela di diritti vecchi e nuovi non basta. Il futuro passa per la difesa di un modo di stare assieme. Il futuro di tutti, e anche quello del sindacato.

(2 settembre 2016)

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