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LA NON CRESCITA E LA CURA ESPANSIVA

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ALESSANDRO DE NICOLA
IDATI del secondo trimestre 2016 sono impietosi. Contrariamente alla “narrazione” della stagnazione secolare o del rallentamento delle economie Ue, l’Italia va peggio degli altri.
SEGUE A PAGINA 31
ED È attanagliata da un male domestico. La crescita zero del Pil è condivisa solo dalla Francia (malata con sintomi simili a quelli nostrani) che però annualmente raddoppia su di noi: +1,4% contro il nostro magro +0,7%. Quindi, finite le scuse su Brexit (che fino al 30 giugno non può avere influenzato alcunché: il Regno Unito è cresciuto al 2,2% l’anno) o terrorismo, rimane come unica àncora cui aggrapparsi la trita storia dei vincoli europei.
La parola d’ordine è “flessibilità”, ottenuta la quale il governo potrebbe varare una manovra espansiva in grado di dare ossigeno alla nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia dalla politica che dalle imprese, si invoca una revisione del limite dell’1,8% al deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017. Dobbiamo allora porci due domande fondamentali: è vero che finora abbiamo patito più degli altri per colpa dell’austerità? E ci convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia. Se prendiamo gli ultimi tre anni completi, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, 51,2% e 50,5% del Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione: se eliminiamo la spesa per interessi passivi, quelli che lo Stato paga ai suoi creditori, i numeri diventano 46,2%, 46,6% e 46,3%. Insomma, dal 2013, se non consideriamo il calo dei tassi di interesse, abbiamo addirittura aumentato un po’ la spesa, che comunque nel triennio è piatta come l’olio. Anche a voler calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come diminuzione di tasse e non aumento di spesa, come invece li considerano le statistiche Eurostat), il saldo finale, cioè il deficit pubblico, non cambia (2,9% nel 2013, 3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015), a conferma che sulla flessibilità abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione circa l’1,7% del Pil negli ultimi 3 anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe attestarsi sul 2,3 % del Pil) e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto grandi benefici.
D’altronde, il rallentamento economico previsto per il 2016, stimato in almeno 5 miliardi di prodotto lordo in meno, rischia di non farci rispettare nemmeno l’obiettivo di bilancio di quest’anno: se comunque ci sarà un lieve miglioramento rispetto al deficit dell’anno prima questo sarà dovuto indovinate a cosa? Al calo del peso degli interessi, ovviamente. Se prendiamo infatti il documento del Mef pubblicato qualche settimana fa sulla gestione del debito pubblico, scopriamo che nel 2015 il costo medio annuo dell’indebitamento (gli interessi offerti per le nuove emissioni) ha toccato il minimo storico assoluto pari allo 0,7%. I Bot vengono ormai emessi con tassi negativi e il calo sta proseguendo per tutto il 2016, talché la stima fatta dal Mef di una spesa per interessi in discesa dal 4,2% nel 2015 al 4,0% nel 2016, potrebbe ancora ridursi, toccando il 3,9%. Vi siete persi in queste micropercentuali? Niente paura, vogliono dire che, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala di un grammo.
E come mai non ci siamo potuti permettere i mega deficit di Spagna, Regno Unito e Irlanda che dopo aver dilatato la loro spesa nel 2010-2011 hanno intrapreso una via di rigore e ora crescono che è una bellezza? Per il fardello del nostro debito pubblico, che è continuato ad aumentare piano piano ogni anno, fino a toccare il 132,7% del Pil e che pure quest’anno, se va bene, rimarrà allo stesso livello. Ma possiamo contare per sempre su questo precario equilibrio? Leggiamo ancora il documento del Mef: “Per i Paesi ad alto debito una quota non trascurabile dei movimenti dei tassi può derivare dalla componente di rischio di credito che spesso è avulso dal ciclo economico: (…) il premio di rischio richiesto dagli investitori potrebbe aumentare in situazione di rallentamento della crescita, nella misura in cui (ciò) tende a influenzare in senso negativo la percezione circa la sostenibilità del debito”. Traduzione: se diamo l’impressione che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così via.
Altro che troppa austerità! Chi ci presta i soldi può avere l’impressione che non siamo seri nel tagliare il deficit, non il contrario, e quindi per l’Italia la prudenza di bilancio è una necessità, non un’opzione.
D’altronde, le virtù del moltiplicatore keynesiano, per il quale la spesa pubblica in momenti di stagnazione o recessione ha un effetto moltiplicatore del reddito, sono da sempre discusse. A prescindere che si sia seguaci di Keynes o di Friedman e Lucas, però, l’esperienza ci insegna comunque una cosetta: un recentissimo studio di tre economisti della Banca Mondiale, Huidrom, Kose e Ohnsorge, esaminando l’evidenza empirica disponibile, ha concluso che lo stimolo fiscale ha effetti più positivi quando la base di partenza è un debito pubblico basso, mentre per i Paesi fortemente indebitati può addirittura creare una diminuzione di Pil! Spendo l’1% di più e il reddito nazionale cala ulteriormente persino durante una recessione. Se pensiamo a quanto poco gli 80 euro abbiano stimolato i consumi, capiamo ad esempio cosa vogliono dire gli economisti quando parlano dell’effetto ricardiano (le persone non consumano e risparmiano perché si attendono tasse più alte). Parlare dei vari mali italiani prenderebbe troppo tempo: sicuramente pensare di curarli con la “flessibilità” è una pia illusione.
adenicola@ adamsmith. it Twitter @ aledenicola
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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