cronaca
> IL RACCONTO
MICHELE SERRA
Q UANDO veniva da Fabio Fazio a Chetempochefa, ogni anno più gracile e sofferente, assottigliata dalla malattia, ci si chiedeva con ansia crescente come avrebbe potuto affrontare la sua mezz’ora davanti alle telecamere. Dopo un minuto che era in camerino l’ansia era un solo vago ricordo, quel fantasma di ossa e spirito trasmetteva una vitalità contagiosa. Con il dolore era dignitosa e beffarda, come si conviene ai grandi comici e ai grandi stoici.
Fazio la voleva a tutti i costi, quasi a dispetto delle forze declinanti, perché aveva in Anna una fiducia cieca. Non la fiducia professionale di chi conosce bene la gente di spettacolo; era una fiducia totale nella persona prima ancora che nell’artista. Amicizia antica, di rara durata e rara profondità nel mondo dello spettacolo, che Anna ricambiava sedendosi su quella poltrona bianca, controllando il proprio corpo febbrile, oramai inconsistente dentro i vestiti, e l’ultima volta governando con fatica anche la favella che cominciava a deragliare, insieme ai muscoli facciali.
Era il 2 novembre del 2014, giorno dei Morti, e Marchesini, che avrebbe debuttato due giorni dopo al Piccolo di Milano, quasi solamente della morte parlò, con strepitosa leggerezza, nel suo italiano colto, ironico, poco cerimonioso. Perfino le mani, torte dalla malattia e mutate quasi in uncini, nello studio televisivo (come in teatro) assumevano una leggiadria farfallesca, disegnavano domande, chiamavano il pubblico, recitavano anch’esse.
Come nelle migliori storie di attore, recitare le aveva fornito una doppia vita e una doppia forza. Era di quelli che fino allo stremo, raccogliendo un’energia interna inimmaginabile per un non-attore, voleva guardare negli occhi il pubblico, parlargli, non lasciare cadere a terra il lungo filo del racconto. Della sua grande determinazione era parte integrante anche la capacità, non comune a tutti gli artisti, di essere partita dal “facile”, dalla battuta agile, dalle imitazioni, dal varietà, dalla velocità televisiva, e non essersi mai accontentata. Aveva enormi mezzi di attrice, la mimica, la voce molto versatile, e una insaziabile curiosità di tutto quello che poteva essere messo in scena. Come capita spesso ai bravi comici è approdata al dramma e alla letteratura (Beckett, Landolfi) conquistandoseli passo dopo passo. Nei suoi ultimi anni, nella maniera di affabulare, nei riferimenti colti però lasciati cadere lì quasi per ridere, ricordava Paolo Poli; e me lo ricordò anche quel 2 novembre di quasi tre anni fa quando raccontò dell’obitorio di Orvieto, di «mamma che amava tanto vestire i morti», con un cinismo mai offensivo, sorridente anche quando si alludeva al sipario chiuso per sempre.
Non meritava di interrompere così presto la sua storia ma sapeva di doverlo fare. Non sapremo mai se davvero è stata, nella malattia e nella morte, così impavida e così allegra; o se era soltanto per amore del pubblico. Ma questo è il segreto di ogni attore.
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