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RISPONDERE ALLA PAURA

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Prima

MARIO CALABRESI
LA STRAGE dei bambini, il terrorismo contro le famiglie, la festa, la passeggiata sul lungomare, i fuochi d’artificio. Siamo stati colpiti quando si era abbassata la guardia, quando si era insinuata, leggera e rassicurante, la speranza che avendo superato indenni gli Europei di calcio potessimo sentirci più sicuri.
Invece le nostre vite sono cambiate e in questo momento storico è difficile rifugiarsi nell’illusione, nella certezza di potersi chiamare fuori. La nostra percezione non può più essere quella di prima, questa strage va talmente a fondo del nostro modo di vivere da lasciare un segno psicologico difficilmente riparabile. I terroristi avevano cambiato il nostro modo di viaggiare, costringendoci a toglierci le scarpe e le cinture, a svuotare le tasche, ad alzare le braccia sotto il metal detector, ad abbandonare le bottigliette d’acqua, gli accendini, le creme e i profumi, a metterci in fila pazientemente. A considerare gli aerei il luogo del pericolo, permettendoci però di credere che evitarli avrebbe azzerato il rischio. Poi sono arrivati il treno, la metropolitana, il concerto, lo stadio, il bar, il ristorante e infine la festa popolare e la passeggiata a mare.
SEGUE A PAGINA 29
SONO arrivati a violare un’intimità familiare che ci parla di gelati, occhi alzati al cielo, bambini sulle spalle, un momento in cui il massimo incubo è non trovare un parcheggio e la paura è quella di perdere un figlio nella folla.
Ma non è solo questo che cambia ogni parametro. È anche il terrorista solitario, imprevedibile, che non arriva dalla Siria o dall’Iraq addestrato e armato fino ai denti, ma dalla periferia e che per uccidere non usa proiettili o esplosivo ma un camion preso in affitto. Un uomo che aveva problemi di soldi, precedenti penali, un divorzio in corso e che non sembra neppure aver fatto il ramadan o essersi radicalizzato in moschea. Un uomo che ha abbracciato una simbologia che ha sempre più successo sulle menti malate, sui fanatici o semplicemente sui disperati in cerca di una identità forte e finale. Una situazione difficilmente prevedibile, immaginabile o intercettabile.
Non ci sono luoghi dove potremo dirci con certezza al sicuro, questo terrorismo definito “molecolare”, cioè non organizzato e fuori da reti e strategie, ci atterrisce perché lascia ampio spazio al caso, al fato, perché limita le possibilità di difendersi, di prevenire.
L’Europa sempre di più scivola verso un modo di vivere che è stato per decenni quello della popolazione civile israeliana, attenta ad insegnare ai propri bambini l’importanza delle precauzioni e del sospetto. Quando un paio di anni fa è cominciata l’intifada delle auto, attentati portati avanti da singoli palestinesi che per uccidere lanciano la loro macchina sulla folla, un amico che vive a Gerusalemme mi spiegò come aveva insegnato ai figli a non aspettare mai l’autobus sulla pensilina, ma di mettersi sempre dietro, al riparo; di camminare vicino ai negozi e mai sul bordo del marciapiede e di aspettare ad attraversare finché la strada non era completamente sgombra. Allo stesso modo per molti anni dopo l’11 settembre su ogni mezzo pubblico di New York era ben evidente uno slogan che diceva: “Se vedi qualcosa, denuncialo”. Al numero di telefono fioccavano le segnalazioni di pacchi o persone sospette. Già oggi, in questa Italia che finora ha pagato il suo tributo di sangue solo all’estero, si moltiplicano le situazioni di allerta: non appena ci si accorge di una borsa o di uno zainetto abbandonati su un treno o un tram, non appena ci si trova vicino ad una donna con il velo che copre il volto (la scorsa settimana a Fiumicino ho assistito alla denuncia di alcuni passeggeri che non volevano saperne di salire in aereo con una signora che aveva la faccia coperta dal niqab). E i dibattiti nelle famiglie, nelle scuole e negli uffici si sono moltiplicati: è il caso di aderire alla gita scolastica? Di andare al museo? Al concerto? All’inaugurazione? Alla partita? Le risposte già si vedono, il crollo di presenze di turisti e pellegrini nei primi mesi del Giubileo della Misericordia ne è stata una prova.
Abbiamo perso un pezzo importante della nostra libertà, della nostra innocenza, nel senso di poterci permettere di vivere con spensieratezza in mezzo agli altri, vivremo vite sempre più dominate dal sospetto, con una soglia di attenzione alta e in un sottile stato d’allerta.
Continuo a credere che dobbiamo caparbiamente difendere i nostri spazi, la nostra cultura, la nostra civiltà, che è fatta di apertura e condivisione, e il nostro diritto se non alla felicità perlomeno allo svago e alla socialità.
Ma è chiaro che non lo possiamo fare semplicemente rimuovendo il problema o comportandoci in modo naif, ma con consapevolezza, serietà e senso civico.
Qualcosa che dobbiamo chiedere a chi ci governa. La consapevolezza e la serietà innanzitutto, che significa lavorare per prevenire, per controllare e per proteggere, che significa mettere in atto politiche di intelligence e di sicurezza ma anche di educazione e inclusione. L’Italia non ha le banlieue francesi, faccia in fretta ad agire prima che la situazione si incancrenisca anche nelle nostre periferie, lavorando all’emersione delle moschee — per evitare l’illegalità e per impedire che centinaia di migliaia di musulmani vadano a pregare in quei garage che sono moderne catacombe — e lavorando sulla scuola e sulla cittadinanza per impedire che le seconde generazioni non si sentano italiane e europee ma crescano nel rancore. Niente di tutto ciò è risolutivo da solo, ma una politica di sicurezza accompagnata da una politica di inclusione possono risultare medicine importanti.
Serietà significa anche non fare sciacallaggio, non sfruttare il sangue per provare a lucrare qualche consenso in più e non fare della paura mercato. Abbiamo bisogno di concretezza, non di altra paura da spargere nel vento estivo.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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