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Rushdie “Che errore la stroncatura di Eco”

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CULTURA

FRANCESCA CAFERRI
Lo scrittore dei “Versi satanici” ricorda il grande autore scomparso e una recensione di cui oggi si pente
NEW YORK
«Se potessi tornare indietro, gli direi che mi dispiace per quella recensione così cattiva che feci del “Pendolo di Foucault”. Anche se quel libro, proprio non mi è piaciuto: e su questo, caro Umberto, non cambio idea». Salman Rushdie sorride ricordando il suo amico Umberto Eco, scomparso due mesi fa: un grande intellettuale e un grande narratore certo, ma anche un uomo allegro che accettava le critiche senza offendersi e a cui piaceva circondarsi della compagnia di persone diverse con cui discutere di tutto.
Il grande scrittore di origini indiane è stato l’ospite d’onore della serata di giovedì con cui l’Istituto italiano di cultura di New York, in collaborazione con il Pen festival, ha voluto ricordare Eco: al suo fianco la scrittrice Siri Hustvedt e il giornalista (ed allievo di Eco) Gianni Riotta. Una serata all’insegna della nostalgia, ma anche del sorriso, secondo il solco tracciato proprio da Rushdie nell’intervento inaugurale. «Non avevo mai incontrato Umberto Eco – ha raccontato – quando mi chiesero di scrivere una recensione del Pendolo di Foucault. Il libro non mi piacque e usai delle parole molto dure ». Per la cronaca, i critici definiscono quella recensione la più negativa mai scritta da Rushdie: «L’obeso nuovo volume di Umberto Eco non ha humour, né caratterizzazione, non possiede nulla che rassomigli credibilmente a una parola parlata, è astrusamente pieno di linguaggio involuto di ogni tipo. Lettore, il Pendolo di Foucault mi ha nauseato. Non è un romanzo: è un gioco per computer». Avrebbe potuto essere l’inizio di una guerra letteraria: invece fu il preludio di un’amicizia: «Qualche tempo dopo incontrai Eco a Parigi e mi venne incontro a braccia aperte. “Rushdie, sono quel raccontaballe di Eco!”. Da lì diventammo amici: c’era anche Mario Vargas Llosa e scoprimmo che ci eravamo tutti e tre insultati a distanza, senza conoscerci. Ma poi, quando finalmente ci incontrammo di persona, capimmo che in realtà ci trovavamo bene insieme. Umberto disse che avremmo dovuto chiamarci “I tre moschettieri”. Io non ero convinto e volevo cambiare nome, ma lui insistette che andava bene così, perché eravamo stati nemici prima di essere amici. Da lì iniziammo a percorrere le varie tappe del circo letterario insieme e devo dire che oggi è molto triste farlo solo in due. Mi ricordo di quello che accadde una volta qui negli Stati Uniti, a Rochester: Umberto parlò una serata intera dei Peanuts e io pensai che nessun altro al mondo poteva parlare di Charlie Brown e Lucy in quel modo. Solo Umberto Eco».
Rushdie ha poi raccontato la sua ammirazione per l’universo de Il nome della rosa. «A un certo punto della mia vita letteraria ho letto molto Agatha Christie: era la regina del veleno, ma dopo 25 gialli francamente non ne potevo più di avvelenamenti, mi sembravano davvero fuori moda. Poi arrivò Il nome della rosa e l’idea di avvelenare gli angoli delle pagine dei libri: in quel momento capii che mi ero sbagliato, che il veleno poteva non essere noioso. Non ho mai chiesto ad Umberto da dove gli fosse venuta l’ispirazione, ma posso raccontarvi un paio di precedenti interessanti: in uno dei racconti delle Mille e una notte c’è un prigioniero che sta per essere decapitato e prima di salire al patibolo regala al re un libro dicendogli “Aprilo solo dopo la mia morte”. Quando lo uccidono, la sua testa tagliata continua a parlare e si rivolge al sovrano: “Apri il libro ora”. Ma le pagine sono avvelenate e il re muore con lui. E poi c’è Alexandre Dumas che nella Regina Margot racconta di un tentativo di uccidere il re con il veleno, che però fallisce. Quando chiesi a Umberto come era nato il libro, mi rispose solo che aveva voglia di avvelenare un monaco. Poi rise e disse che non era vero, che tutto era partito da un’immagine e dall’idea delle pagine avvelenate.
Nei suoi libri Eco è partito da un’immagine che cristallizza qualcosa: io trovo che sia straordinario che uno scrittore che conosceva e usava la lingua in maniera così profonda sia partito dalle figure e non dalle parole. Ma se ci pensate Il nome della rosa è un romanzo molto visivo, dove c’è una sorta di sguardo che mostra le cose di cui si parla».
Rushdie ha parlato delle centralità dell’universo della biblioteca ne Il nome della rosa e dei riferimenti nascosti nel libro: del monaco Umberto da Bologna, personaggio secondario ma presente e del venerabile Jorge, protagonista chiave del romanzo, battezzato in omaggio a Jorge Luis Borges. Lo scrittore argentino era un riferimento costante per Eco, ha sottolineato, nonostante gli stili dei due fossero così diversi: non soltanto nell’idea della biblioteca- mondo ma anche per la struttura di alcuni suoi scritti.
«C’è un breve racconto in cui Borges parla di un uomo che trova la chiave che lega tre delitti apparentemente inspiegabili e pensa che questo lo aiuterà a prevenire la quarta morte: solo alla fine si accorge che tutto è stato pensato perché lui sia esattamente in quel luogo e in quel momento, vittima designata dell’ultimo, e principale, delitto ».
Più che di nostalgia, le parole di Rushdie hanno il sapore dell’ironia: nulla di melenso, di commemorativo, di retorico è emerso dal suo discorso. Ha tracciato il ritratto di un amico geniale con cui non sempre andava d’accordo, ma di cui di certo ammirava l’acutezza dello sguardo: la nostalgia l’hanno provata i presenti, consapevoli che la morte di Eco li ha privati per sempre della possibilità di assistere alle schermaglie dei “tre moschettieri”.
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