“Credo che abbiamo dato un contributo alla comprensione di che cosa sia successo nei primi drammatici mesi della pandemia nel nostro territorio”. Avete letto bene. Il procuratore di Bergamo di fatto sta dicendo che le inchieste giudiziarie possono prescindere dalla ricerca dei reati (“il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario”) se queste hanno una valenza sociale, utile cioè a offrire ai cittadini qualche elemento in più per capire il mondo che li circonda e per farsi un’idea di che cosa sia andato storto o no in un preciso momento storico. A suo modo, dunque, è una dichiarazione importante quella offerta da Antonio Chiappani, che con molta trasparenza ha messo in chiaro un cambio di fase vero all’interno della nostra repubblica giudiziaria: la presenza di inchieste costruite non necessariamente per dimostrare se un reato sia stato compiuto oppure no. Il tribunale del popolo, di solito, funziona così. Funziona con le inchieste che nascono, appunto, a furor di popolo. Funziona con i magistrati che, colpiti dalla società del dolore, si sentono in dovere di dare risposte al popolo. Funziona con le inchieste che vengono architettate con la consapevolezza che ciò che conta davvero non è portare a processo gli indagati ma offrire elementi solidi per avere un processo mediatico fatto con i fiocchi. E funziona poi di solito con una giustizia che effettivamente fa il suo corso, e che molto spesso archivia le indagini che prescindono dalla ricerca dei reati, e che però quando arriva alla fine del suo percorso offre regolarmente ai cittadini l’immagine di una giustizia ingiusta, incapace di allinearsi con la sentenza già emessa dal circo mediatico: tutti colpevoli. Non sappiamo se andrà così anche con le indagini di Bergamo (ma quel che conta comunque è il valore extragiudiziario dell’inchiesta, no?) ma sappiamo che finora ogni tentativo portato avanti dalla magistratura di sindacare con le armi della giustizia sulle scelte della politica si è andato a scontrare contro un muro chiamato realtà. E la realtà, per quanto dolorosa, ci dice che l’Italia, come tutti, durante la pandemia, ha fatto quel che ha potuto. Ha dovuto fare scelte improvvise, complicate, dolorose, e quasi sempre sagge, sulla base dei pochi elementi che si avevano a disposizione all’inizio della pandemia. E così, nel giro di tre anni, le molte inchieste aperte dalla magistratura per sindacare sulle scelte della politica si sono sciolte regolarmente come neve al sole (ma quel che conta comunque è il valore extragiudiziario dell’inchiesta, no?). Il 13 agosto del 2020 la procura di Roma chiede al tribunale dei Ministri l’archiviazione per Giuseppe Conte e i ministri Bonafede, Di Maio, Gualtieri, Guerini, Lamorgese e Speranza, indagati per il loro operato durante l’emergenza sanitaria. Nel luglio del 2021 la procura di Lodi archivia un’inchiesta per omicidio colposo e epidemia colposa. Nell’ottobre del 2021, la procura di Milano chiede l’archiviazione dell’indagine simbolo della presunta “strage di anziani” durante la prima ondata della pandemia: quella a carico degli amministratori del Pio Albergo Trivulzio.Nell’ottobre del 2021, la procura di Campobasso chiede l’archiviazione sulla gestione sanitaria dell’ospedale Cardarelli. Nel novembre del 2021, la procura di Bari chiede l’archiviazione per un’indagine che ipotizzava, a carico di ignoti, i reati di epidemia colposa, lesioni personali e omicidio colposo. Il 10 gennaio del 2022, la procura di Como chiede le archiviazioni per tutte le cause aperte nella primavera dell’anno precedente nei confronti di 13 case di riposo e due ospedali. E poi altre archiviazioni ancore per storie simili. A marzo del 2022 tocca a Torino (Rsa). Il 5 novembre 2022, tocca a Mantova (ancora Rsa). Il 17 novembre del 2022, è la volta di Genova (ancora Rsa). II 22 novembre, ancora, arriva un’archiviazione per fatti simili dalla procura di Venezia. Tutto questo, in teoria, dovrebbe farci riflettere, su cosa significhi mettere l’azione penale al servizio della ricerca non di un eventuale reato ma della Verità, con la “v” molto maiuscola, e su cosa significhi avere un sistema giudiziario tarato per alimentare in modo scientifico il processo mediatico, e per affermare dunque sulla scena pubblica una verità che essendo solo mediatica tenderà spesso a discostarsi da quella giudiziaria. Si potrebbero fare questi ragionamenti ma purtroppo i ragionamenti che leggerete, sull’incredibile inchiesta di Bergamo, andranno in un’altra direzione, simile a quella suggerita ieri, con una nota a metà tra il comico e il surreale, del presidente dell’Ordine dei giornalisti, della segretaria generale della Federazione nazionale stampa e del presidente della Fnsi, convinti che di fronte a cotanto scenario il tema non siano i magistrati che offrono bocconcini prelibati al processo mediatico ma siano le norme sulla presunzione di innocenza eccessivamente garantiste che non hanno consentito ai magistrati di fare conferenze stampa dopo l’apertura delle indagini e che per questo “vanno corrette al fine di garantire il corretto equilibrio fra il dovere di informare e le garanzie per tutti i cittadini quando vengono indagati”. Da Marte è tutto, a voi studio.
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