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la democrazia non è disarmata

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Quasi un anno di guerra a parlare a sproposito di pace mentre sotto i nostri occhi gli ucraini costruivano l’antidoto più potente al sadismo del regime di Putin. Chiacchiere, pensieri e oggetti che hanno composto la nostra sopravvivenza. Un dialogo appassionato, partendo da Anne Applebaum

Il taccuino di Erika Kinetzè piccolo con le pagine bianche piene di disegni semplici: una strada, un bivio, dei puntini. Sono le piccole mappe dell’orrore russo per le strade di Bucha, Irpin, Chernihiv: i puntini sono i cadaveri ritrovati, uno due, tre corpi qui, altri corpi là – “otto in tutto”, in pochi metri – di fianco ci sono i quadratini che indicano i palazzi distrutti. Erika Kinetz è una giornalista dell’Associated Press, è arrivata in Ucraina poco dopo l’invasione della Russia, il 24 febbraio 2022, per raccontare la guerra e si è ritrovata a documentare un massacro di esseri umani che il ministro degli Esteri ucraino, Dmitro Kuleba, sintetizza così: “Può succedere di tutto, puoi essere ucciso, stuprato, torturato, tagliato a pezzi, tutto”. 

Il lavoro della Kinetz e di altri suoi colleghi è diventato un documentario prodotto assieme alla Pbs, “Putin’s attack on Ukraine”, che è stato pubblicato alla fine dell’ottobre scorso: ripercorrendo i primi mesi dell’aggressione russa, puntino per puntino, quadratino per quadratino, ogni storia riemerge dalla memoria – è passato quasi un anno e sembra un secolo di violenza. Di questo film – ce ne sono altri e ne stanno uscendo di nuovi per l’anniversario – colpiscono tre cose: gli occhi increduli dei sopravvissuti; gli “oh God” che sfuggono alla Kinetz anche dopo che ha preso quaderni di appunti, dopo che ha fatto cento disegni con i puntini e i quadrati, e i testimoni ne hanno aggiunti altri a mano, dopo che ha visto e rivisto che i soldati di Vladimir Putin hanno commesso e commettono crimini di guerra; le enormità che sono successe dopo, a documentario concluso: tanto orrore è soltanto una parte, l’inizio. 

“Oh God” è il ritornello necessario per raccontare questo primo anno di guerra: non ci abitua alla violenza. Le immagini non si assomigliano l’una all’altra, ogni maceria conta, ogni cadavere conta, se ogni esplosione è uguale a quella dopo, se passa l’idea perversa che tutte le guerre sono brutte, si soffre e si muore, allora si banalizza anche la difesa dall’attacco: questa è una guerra ingiustificata in cui un popolo di cittadini normali ha dovuto, da un giorno all’altro, inventarsi soldato. 

E’ essenziale riconoscere gli oggetti della quotidianità sventrata dagli attacchi di Putin: le stanze divelte con le lenzuola ancora sui letti, la cucina tranciata e sospesa in cima a un condominio colpito da una bomba, le mele nel cestino in mezzo al tavolo, i portachiavi, le biciclette, i sacchetti della spesa, le mutande rubate dai soldati russi per spedirle alle loro fidanzate a casa, le lavatrici e i frigoriferi portati via, alcuni consegnati perché possono servire alla macchina della guerra russa altri inviati alle famiglie, le scarpe, i televisori, le scatolette di cibo, le tende, i pneumatici infilati in sacchi grigiastri che sono stati ritrovati nelle città russe vicine al confine ucraino – bottini di guerra che sanno di miseria e di disperazione. E poi i corpi, centinaia di corpi lasciati sulle vie dell’aggressione di Putin – le vie di ingresso, le vie di fuga, in questa continua e falsa “riorganizzazione” che la propaganda di Putin ci rifila per disorientarci – corpi russi, corpi ucraini, mani legate, cappucci in testa, vestiti sformati, bruciature, mutilazioni, mine ovunque perché nemmeno il ritrovamento e il lutto possano essere momenti di dolorosa calma. 

Gli oggetti, le cose, i corpi e la memoria si intrecciano sotto i nostri occhi, mentre una catastrofe umanitaria s’è abbattuta su un intero paese – un paese grande due volte l’Italia tutto sotto attacco da un anno, tutti i giorni – per la volontà imperialista e genocidiaria della leadership di Mosca. “L’Ucraina conta come simbolo del perduto impero sovietico”, dice Anne Applebaum, scrittrice che da almeno vent’anni, dal suo seminale “Gulag” pubblicato nel 2003, ci costringe ad andare a vedere da vicino quel che preferiremmo ignorare.

DI PAOLA PEDUZZI

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