Trasformando la materia in protagonista, l’artista umbro dopo la guerra ha segnato un nuovo inizio dell’astrazione
testo di Alessandro Beltrami
Quando l’8 settembre 1943 l’Italia firmò l’armistizio precipitando nel caos, Alberto Burri era paradossalmente al sicuro. Già dal maggio precedente era prigioniero dell’esercito Usa in Tunisia. Nell’ottobre 1940, solo cinque mesi dopo la laurea all’Università di Perugia, era entrato nell’esercito come medico militare. Ma in guerra c’era già stato: nell’estate del 1935, a vent’anni, poco prima che l’Italia invadesse l’Etiopia, si era arruolato nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: le camicie nere. Trasferito in un campo per prigionieri di guerra a Hereford, in Texas, sarebbe rimasto recluso fino al 1946 in condizioni dure. È in questo periodo che decide di lasciare la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura.
Un nuovo inizio? O piuttosto un trovarsi, un riconoscersi? C’è chi ha provato a leggere il lavoro di Burri con i sacchi e le suture come una memoria del suo passato, una reazione ai traumi della guerra, una denuncia della violenza della storia. Ma lo stesso artista, sempre molto parco di commenti, ha evitato ogni lettura psicologica o narrativa del suo lavoro. Anzi, è sempre stato molto chiaro su come il senso sia tutto interno. «Non vi sono messaggi» diceva. «Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione».
«In Burri l’astrazione sarebbe propriamente il “gesto”, l’operazione di sottrazione del materiale che, da “oggetto” d’uso, diviene il “luogo”, punto di incontro tra soggetto e oggetto, da cui la “pittura” riparte, ripensandosi dall’inizio».
Le Muffe, i Catrami, i Sacchi, i Gobbi. E poi le Combustioni, i Cellotex, i Cretti. Come scrive Bruno Corà nel catalogo della mostra che la Fondazione Ferrero dedica all’artista, «sulla tabula rasa da lui predisposta a partire dal 1948 non poteva dunque che essere accolto, dalla sua tensione cognitiva e poetica, altro che la semplice epifania del vero e del reale al grado zero della nuda materia». Il corpo del reale, osteso.«Un corpo, in modo transitivo – osserva Thierry Dufrêne –, nello stesso modo in cui il colpo di punteruolo o il taglio di Fontana non rappresentano lo spazio ma lo creano, lo fanno accadere. Ciò che avviene è l’istituzione o l’inaugurazione di un corpo, non la sua rappresentazione.
Un Sacco di Burri definisce, fa esistere un corpo attraverso l’azione». I Cretti occupano intensamente l’artista dal 1973 al 1976: sono l’esperienza della terra. E la terra ha dato lo spunto al Grande Cretto di Gibellina, il paese del Belice distrutto da un sisma nel 1968. Il capolavoro, avviato nel 1984 e completato solo nel 2015, è una “pittura” che acquista la dimensione di paesaggio, le cui linee spezzate si concatenano a quelle che percorrono le colline siciliane. Un’opera che si fa ambiente e che oggi per ragioni ambientali sarebbe impensabile soltanto azzardarsi a proporre: ottomila metri quadrati di cemento che ricoprono una collina. «Quando andai a visitare il posto – raccontò – il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento». Il Grande Cretto di Gibellina doveva rientrare nel vasto progetto di rinascita del paese e dei suoi abitanti. Ma è un monumento funebre troppo ingombrante per segnare un nuovo inizio. Il sarcofago di macerie è una grandiosa, tragica fossilizzazione del passato contro la quale nulla può, anche a distanza, Gibellina Nuova, uno dei maggiori fallimenti dell’utopismo dell’architettura. Burri l’aveva capito. Si riparte solo dal corpo della realtà.