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Inquisizione tra storia e leggenda

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Gregorio IX sceglie i domenicani per combattere il fiorire delle eresie

 testo di Franco Cardini 

 
Spetta a papa Gregorio IX l’aver avviato la sistematica repressione dell’eresia, avocandone la guida alla Santa Sede con la decretale Excommunicamus del febbraio 1231, cui si accompagnò uno statuto antiereticale promulgato nel medesimo mese dal senatore romano Annibaldo Annibaldi. L’insieme di questi due provvedimenti è noto come “Statuti della Santa Sede”: essi prescrivono la confisca dei beni degli eretici, la demolizione delle loro case (come si faceva per i ribelli politici), una forte ammenda – che, se non pagata, comportava il bando d’esilio – per qualunque favoreggiatore. È da questi documenti che il termine inquisitor – che fino ad allora designava semplicemente l’incaricato di un’inchiesta – assume il valore di “inquisitore” nel senso che siamo abituati ad attribuirgli. Questi “Statuti” furono tiepidamente accolti dai vescovi, scontenti di questa crescente egemonizzazione da parte della Sede romana che riduceva le loro prerogative. Papa Gregorio IX reagì conferendo nuova autorevolezza all’Ordine dei Frati Predicatori, da lui incaricati di occuparsi tanto della repressione degli eretici quanto della riforma della Chiesa. La bolla pontificia Ille humani generis dell’8 febbraio 1232 affidava loro il negotium fidei. L’Inquisizione si diffuse e s’insediò in tutta l’Europa cristiana, favorita dai regnanti. I primi tempi furono però turbolenti e segnati dalla presenza di forti figure d’inquisitori, non immuni in molti casi dalla violenza e dal fanatismo. In Italia, il partito ghibellino si oppose spesso agli inquisitori. A Firenze, roccaforte degli eretici, l’Inquisizione tenuta dai domenicani di Santa Maria Novella dovette affrontare l’ostilità delle grandi famiglie ghibelline e di una parte della popolazione, e dopo veri e propri scontri armati venne affidata ai francescani di Santa Croce. Tra Emilia e Veneto operò l’energico frate Giovanni da Vicenza, che cacciò i catari da Bologna, ne mise al rogo una sessantina a Treviso nel 1233, e divenne anche podestà di Verona. In Lombardia l’inquisitore domenicano Alberico fece eseguire numerose condanne per eresia, e indusse il papa a scagliare l’interdetto contro la ghibellina Bergamo, “complice degli eretici”. Il martire domenicano san Pietro da Verona – sepolto nella Cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano – fu ucciso nel 1245 da un sicario assoldato dai catari lombardi (in seguito l’uomo, convertitosi, avrebbe a sua volta indossato l’abito domenicano). Sirmione, altro luogo nel quale il catarismo era molto diffuso, fu conquistata a forza dagli inquisitori nel 1273 e cinque anni dopo duecento eretici furono bruciati; a Parma il rogo di due donne, nel 1279, provocò una vera e propria sommossa popolare.

 In Francia, l’ex-eretico Roberto “il Bulgaro”, divenuto inquisitore domenicano per tutta la Francia (escluso il Midi) bruciò o fece seppellire vivi centinaia di catari: ciò dette luogo a un’inchiesta pontificia. Nel Midi l’Inquisizione, affidata ai domenicani di Tolosa, si occupava di riorganizzare la regione sconvolta dalla crociata contro gli albigesi (1209-1229). Anche qui, la repressione fu severa: a Cahors e a Tolosa si celebrarono processi anche a personaggi defunti, i cadaveri dei quali furono riesumati e arsi in pubblico; a Moissac si condannarono al rogo duecentodieci persone; a Montségur, ultima rocca catara, si ebbe il tragico epilogo del rogo collettivo dei resistenti.


 La leggenda nera dell’Inquisizione nasce in parte dalle efferatezze di quest’epoca: pensiamo al Bernardo Gui del Nome della Rosa (e del film più che del romanzo) e al Nicolas Eymerich di Valerio Evangelisti, entrambi nomi di inquisitori esistiti davvero, che hanno lasciato manuali inquisitoriali che ne hanno perpetuato la fama, e tuttavia nella realtà lontani dall’immagine sadica che traspare dalla narrativa. La leggenda nera si lega soprattutto alla situazione spagnola a partire dal Quattrocento, quando a essere presi di mira furono soprattutto i conversos dall’ebraismo: è il caso della figura del domenicano Tomás de Torquemada (14201498), designato inquisitore generale per la Castiglia, l’Aragona, il León, la Catalogna e Valencia. Confessore dei Re Cattolici di Spagna, Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia, Tomás organizzò e teorizzò nelle sue Instructiones redatte fra 1484 e 1498 il suo compito, che prevedeva il graduale allontanamento degli ebrei dalla Spagna. L’obiettivo era fondare un’identità nazionale spagnola rigorosamente ancorata all’ortodossia cattolica: una svolta rispetto a una realtà che aveva veduto, per molti secoli, un dialogo serrato e una convivenza non sempre facile, comunque articolata e nel complesso positiva, fra cristiani, ebrei e musulmani. Le linee portanti dell’azione del Torquemada furono nella sostanza due: verificare la serietà delle convinzioni dei conversos dall’ebraismo, e indurre – con ordinanze locali e con un pesante regime fiscale, i proventi del quale andavano a finanziare la crociata – gli ebrei restii a convertirsi o a lasciare il paese. Dopo il 1492, fu decretata l’espulsione in blocco degli ebrei e l’attenzione del Torquemada si spostò sui convertiti dall’islam al cristianesimo, i moriscos. Nonostante la durezza dei provvedimenti, l’immagine di fra Tomás come di un truce e sadico tormentatore è del tutto gratuita: su ciò concordano gli storici autorevoli dell’Inquisizione spagnola. Egli fu certo rigoroso e inflessibile, ma in ciò non fece che seguire da una parte le linee portanti dell’atteggiamento della Chiesa che proprio in quegli anni stava irrigidendosi nella lotta all’eresia, dall’altra la politica dei Re Cattolici che avevano insistito col papa per aver mano libera anche nelle questioni religiose del loro paese.

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