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La scuola che non vediamo

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di  MARCO LODOLI  



Ho fatto un po’ di rapidi calcoli: sono entrato a scuola il primo ottobre del 1962, alunno della prima elementare Ugo Bartolomei. Dunque sono cinquantanove anni che ogni mattina mi potete trovare in un’aula scolastica, inserendo nel calcolo anche gli anni universitari e non tenendo conto dei due anni di asilo. Quando mi sono laureato, nel luglio del 1980, ho spedito una decina di lettere alle scuole parificate della mia città, Roma, e immediatamente sono stato convocato in un istitituto ai Castelli, un agrario che aveva appena aperto. Ricordo ancora il colloquio: il mio curriculum era raccolto in poche righe, ma cercai di essere spigliato, simpatico, comunicativo, e fui assunto. Era una scuola in cui volavano i colibrì, c’era una teca con una vedova nera e una vasca con i pirana, in una gabbia in cortile girava in tondo e ululava un lupo siberiano. Il proprietario-gestore-preside aveva girato mezzo mondo ed era tornato da poco, pieno di buone intenzioni e con un mezzo zoo al seguito. Lì ho cominciato a insegnare, a capire come funziona la scuola vista dall’altra parte, cioè dalla cattedra, anche se in tutta la mia vita professionale non mi sono mai seduto dietro la cattedra, mi fa sentire troppo professore, troppo lontano dai ragazzi.

 
In quegli anni ho fatto lezione a studenti spesso più grandi di me, ripetenti cronici, gente che aveva abbandonato gli studi e provava in extremis a guadagnarsi un diploma pagando una retta e frequentando quando poteva. Anche a una classe di giardinieri del Comune di Roma ho provato a spiegare Leopardi e la Rivoluzione francese, erano per lo più quarantenni che avevano bisogno del diploma per poter partecipare a dei concorsi. Spiegavo e il lupo ululava, dettavo appunti e volavano uccellini esotici nel cielo della classe. Per un breve periodo ci fu anche un piccolo caimano nella vasca di uno dei bagni. Mi sembrava tutto un po’ assurdo, ma anche estremamente divertente, passavo le ore in mezzo a giovani che volevano coltivare le vigne o allevare mucche frisone, far crescere il grano e le rose.


In quegli anni ho anche confusamente iniziato a capire come sono fatti gli insegnanti: sono strane figure di adulti-adolescenti, una concentrazione misteriosa di due età differenti della vita. Anche se hanno quarant’anni o cinquanta o sessanta, in loro permane una fragilità esistenziale, un’innocenza barcollante che li esclude dal mondo reale dell’adultità. In loro, in noi, resiste il ragazzo o la ragazza di sedici o diciassette anni che fu e che non è mai veramente scomparsa. Abbiamo, le titubanze, le illusioni, le passioni, le insicurezze di un brufoloso adolescente che esita eppure pretende, che sogna e si arrabbia, che vuole imporsi ma trema. La scuola è il nostro regno, fuori di lì, nel mondo reale, tra i veri adulti determinati e spesso insopportabili, non sappiamo come muoverci, cosa dire, cosa fare. L’insegnante, insomma, è spesso una creatura mitologica, metà grande e metà piccola, detentore di un sapere importante che talvolta gli appare inutile, a suo agio tra lezioni e ricreazioni, consigli di classe e gite scolastiche, programmazioni e pizzette, e invece piuttosto insicuro appena fuori dai cancelli del suo istituto. Il mondo di noi professori sta quasi tutto tra le quattro mura dell’aula, il cortile, la biblioteca, il corridoio davanti la presidenza, le discussioni nella sala-insegnanti, dentro una inesauribile adolescenza, che invecchia ma resiste. Anche per questo gli insegnanti sono spesso oppositivi e scontenti, speranzosi e delusi, dolci e amareggiati.

  
Ho incontrato tantissimi professori capaci di una dedizione assoluta alla scuola, dei veri missionari in grado di sobbarcarsi quantità spaventose di lavoro non retribuito, di sostenere progetti faticosissimi con slancio e passione, proprio come fanno i ragazzi quando iniziano a spingere dentro la vita le loro purissime convinzioni. E ne ho conosciuti tanti altri – ma meno, molto meno – affranti, demotivati, pervasi dal sentimento grigio della sconfitta, ragazzi canuti e rassegnati. E’ un universo a parte, la scuola, un piede nel mondo e uno fuori, una corsa zoppicante.

  
In quei primi anni di lavoro ho insegnato anche in una scuola dichiaratamente di “recupero”, uno di quei diplomifici che continuano a prosperare fuori da qualsiasi controllo. Sono situazioni delicate, dove si può cadere facilmente nella disistima di sé e degli altri.

   

Una cascata di parole sul silenzio. Adolescenti prigionieri delle chiacchiere sapienti ma straniere degli insegnanti. L’insuccesso di due anni in Dad è stato  proprio quello di esasperare al massimo la passività degli studenti

  

Ma anche a quegli studenti smarriti ho voluto bene, cercando di farli uscire dal pozzo della vergogna o del cinismo prematuro. In fondo l’insegnante è come il medico, deve fare il suo mestiere meglio che può e ovunque, in qualsiasi condizione, e io mi sono sempre sentito più convinto e propositivo in mezzo a ragazzi in difficoltà, è come stare più vicini al senso generale della vita: spaesamento, speranza, ferita ma anche sorgente che si rinnova di continuo. Inevitabilmente e fortunatamente ogni superbia intellettuale si assottiglia fino a sparire per sempre. Ricordo ancora uno dei primi temi che proposi: “Bisogna essere assolutamente moderni: commenta questa frase di Rimbaud”, e uno studente al primo banco, uno dei peggiori, dondolando la testa mi disse: “A professò, sta frase nun l’ha mai detta… il film l’ho visto tre volte, e cominciamo a dì che se chiama Rambo e no Rembò”. Come si fa a non voler bene a certi ragazzi, a non impegnarsi anima e corpo per loro? Tra l’altro, molti anni dopo, scoprii che l’eroe di “First Blood”, il romanzo da cui era tratto il film con Stallone, aveva scelto quel nome di battaglia proprio in onore del grande poeta francese… 

  
Insomma, per farla breve, nel 1984 ho superato il concorso per la scuola pubblica e nel 1985 sono entrato come insegnante di ruolo nella scuola dove da allora ho sempre lavorato, un istituto professionale con più sedi, sparso tra Torre Spaccata, Torre Maura, Borghesiana, borgate di Roma sud-est. Mi sembra che a quei tempi fosse più facile arrivare alla cattedra, il giorno in cui mi fu assegnata c’erano centinaia di giovani che ottennero il loro sacrosanto lavoro a tempo indeterminato. Oggi quella generazione di professori che si era formata culturalmente, esistenzialmente, politicamente negli anni Settanta è arrivata quasi al capolinea, a un passo dalla pensione, e il ricambio è lento e complicato. Guardo con ammirazione tanti giovani colleghi – giovani per modo di dire, hanno più di trenta, più di quarant’anni – che combattono strenuamente per ottenere un punto in più in graduatoria, che si sbattono tra astratti corsi di formazione e incarichi volanti per raggiungere l’agognata isola della cattedra. Molti si svegliano la mattina alle quattro a Caserta, a Napoli, a Benevento e ancora al buio prendono treni verso Roma, sbarcano a Termini, salgono su autobus e metropolitane per essere alle otto in classe. E finite le lezioni inizia il lunghissimo viaggio di ritorno verso casa, un’anabasi quotidiana che sfianca e deprime, per 1.400 euro al mese, in buona parte consumati in trasporti e panini. Questo è il primo problema della scuola, la formazione e l’immissione in ruolo di forze fresche, maggiormente in sintonia con le trasformazioni del tempo e le nuove attitudini degli studenti. 

    
Per anni io ho insegnato spiegando i testi, facendo leggere pagine di autori importanti, cercando di sedurre gli allievi con il fascino delle parole, con quella teatralità un po’ istrionica che credevo indispensabile per coinvolgere e appassionare. Ora la lezione cosiddetta frontale viene considerata preistorica, retaggio di un tempo in cui chi sa spiega e chi non sa ascolta. Acustici venivano chiamati gli studenti dell’antica Grecia, poiché dovevano solo stare zitti e ascoltare. Ma ora tutto questo è impensabile, e me ne accorgo anche io quando sono costretto a rimanere seduto in silenzio per tre o quattro ore durante i collegi docenti: fiumi di parole incomprensibili, di vacue dissertazioni, di intenti velleitari mi si rovesciano addosso e soffro come un cane bloccato come tutti gli altri professori nella mia seggiolina. Aspetto solo che quella tortura finisca. E allora capisco bene la pena degli adolescenti che debbono stare zitti e buoni per l’intera mattinata, prigionieri del loro banco e delle chiacchiere sapienti ma straniere degli insegnanti.

   

Il problema di fondo della scuola è quello di riuscire a coinvolgere maggiormente i ragazzi, che ormai vivono dentro modalità comunicative quasi ignote ai loro professori, almeno a quelli – e sono la stragrande maggioranza secondo i dati ministeriali – che navigano oltre i cinquant’anni. Probabilmente l’insuccesso di questi due anni in Dad, certificato dalle disastrose prove Invalsi, è stato proprio quello di esasperare al massimo la passività degli studenti. Non c’era alternativa alla didattica a distanza, senza questo imperfettissimo strumento avrebbe regnato solo la solitudine assoluta, il silenzio totale: e però è evidente che la scuola non può essere più una cascata di parole addosso al silenzio, che così cresce solo la noia, il disinteresse, l’apatia, e troppi ragazzi svaniscono nel nulla, abbandonano la scuola per finire chissà dove. Vanno rinnovati i programmi e le modalità in cui vengono proposti, è un’urgenza impellente. 


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