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Il partigiano Sereni, lo Ždanov italiano

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RESISTENZA

 ROBERTO RIGHETTO

 

Filologia e rivoluzione: sono queste le due parole chiave della vita e dell’opera di Emilio Sereni, detto Mimmo, uno dei protagonisti della Resistenza e del Partito comunista italiano nel dopoguerra. Negli anni della clandestinità accomunò l’impegno attivo nel Cln con l’amore per i classici, che gli era venuto dagli studi compiuti al liceo Mamiani di Roma e che mai l’avrebbe abbandonato. Persino quando fu arrestato una prima volta, nel 1930, allorché l’anno successivo fu trasferito al carcere di Lucca si portò dietro un baule di libri. Solo in occasione del secondo arresto, rinchiuso nel braccio della morte a Torino dove restò sette mesi, nel 1944, uscendone con un’operazione funambolica organizzata dai compagni di partito, non gli fu permesso di tenere alcun volume; così in quel periodo d’angoscia si accontentò di declamare gli autori greci e latini che prediligeva. La sapienza degli antichi, oltre al pensiero della moglie Xenia, gli rese meno dura la carcerazione, con la possibilità di essere fucilato ogni giorno.

 Uscito dalla galera, Sereni si era recato a Milano dove subito si era gettato a capofitto nella Resistenza, in quei mesi cruciali per la liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista. Un bel volume di Margherita Losacco, significativamente intitolato Leggere i classici durante la Resistenza (Edizioni di Storia e letteratura, pagine XXXVIII+230, euro 24), descrive le letture che egli faceva nel poco tempo libero che aveva a disposizione, quasi sempre strappando ore al sonno. Oltre che rileggere gli antichi, con una preferenza per Sofocle ed Euripide, Virgilio e Orazio, Mimmo appuntava su carta le sue riflessioni e riscriveva alcuni estratti delle opere che più l’avevano colpito e che più sentiva collegati alla situazione di lotta in cui era immerso. Utilizzando le carte conservate nell’archivio di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, vicino alla cascina dei fratelli Cervi, l’autrice ricostruisce in particolare il periodo che va dal 1944 al 1947. Così, apprendiamo che Sereni, il 21 novembre del ’44, riprende in mano le Bucoliche. Poco prima era uscito il proclama di Alexander ai partigiani italiani, in cui il generale inglese informava che a causa dell’inverno l’avanzata alleata non poteva che rallentare e invitava quasi a smobilitare in attesa della primavera. Una doccia fredda per il movimento di liberazione: così Sereni trova in Virgilio «quel desiderio d’idillio che rinasce in tempi come questi». I temi dell’opera del poeta latino sembrano un’ancora di salvezza e gli danno conforto. Commenta Losacco: «La lettura dei classici si fa antidoto a un presente incerto e straziato, in un gioco di specchi tra l’autore antico e il lettore mo- derno, tra guerre civili antiche e moderne».

 Il 2 dicembre, quando Luigi Longo replica al capo della spedizione alleata in Italia e rileva che i partigiani continueranno nei loro agguati e nei sabotaggi dei nazisti, Mimmo legge le Satire di Orazio. «Quisnam igitur liber?», si chiede e col poeta risponde che veramente libero è il saggio che non teme la povertà, la morte, le catene. Concetto che torna qualche giorno dopo, allorché esalta l’Ulisse dantesco. Pochi giorni dopo, il 16 dicembre, Mussolini tiene un discorso al teatro Lirico di Milano invocando la concordia nazionale: Sereni, anch’egli nella città lombarda, mentre è intento a svolgere un ruolo di organizzazione e coordinamento della Resistenza, si appunta alcuni excerpta di Tibullo sulla pace e sulla speranza. Come detto, sono i mesi più duri: a febbraio lo scenario muta in positivo, si infittiscono le riunioni del Clnai per preparare l’insurrezione. Sereni prende in mano Socrate di Antonio Banfi, il filosofo che aderirà solo momentaneamente al Pci per un senso di ribellione verso la dittatura, ma se ne distaccherà perché propugnava una linea di pensiero aperta e non rigidamente dogmatica. Socrate diventa l’emblema della ribellione al potere non in nome di un vago intellettualismo: è la vita stessa che contiene il vero insegnamento.

 Nelle settimane successive, quando si fa sempre più evidente la prospettiva della vittoria e si discutono i termini della ritirata tedesca, le vittime del regime sono sempre tante. Fra questi l’amico Eugenio Curiel, al quale Sereni dedica un articolo, pubblicato anonimo il 10 aprile su 'La nostra lotta', che rievoca l’Antigone di Sofocle e in cui si può leggere: «Nessuna cosa grande entra nella vita mortale senza sciagura». Fautore a oltranza della linea di impedire accordi col nemico, Sereni si precipitò nell’arcivescovado di Milano inveendo contro il console tedesco Wolf dopo che si era svolto l’incontro fra Mussolini e alcuni esponenti della Resistenza, fra cui il generale Cadorna, per trattare la resa. Si sa come andò a finire: la fuga del Duce, l’arresto e la fucilazione: quando i partigiani che l’avevano intercettato telefonarono ai loro capi per deciderne la sorte, furono Pertini, Longo, Valiani e Sereni a deliberare la sua esecuzione. Così come fu l’azione di Sereni e Pertini a estromettere Alfredo Pizzoni dalla carica di presidente del Cln il 27 aprile: da allora il banchiere liberale, che con i suoi contatti aveva fatto arrivare alla Resistenza i fondi necessari per le proprie attività subì una vera e propria damnatio memoriae.

 Peraltro, va detto che Sereni, nei mesi successivi alla Liberazione, fu sempre contrario alle azioni di giustizia sommaria commesse dai partigiani. In quei giorni drammatici ma entusiasmanti dopo il 25 aprile, Sereni rilegge il discorso di Regolo, il carme di Orazio contro lo scambio di prigionieri, e i versi dei Persiani di Eschilo che esaltano la resistenza degli Ateniesi contro il tiranno orientale. Come si vede, egli non smette mai di leggere, trascrivere e meditare i testi greci e latini e il volume di Losacco, che in appendice riporta l’elenco dei brani e alcuni dei suoi commenti, bene racconta l’atteggiamento del leader comunista che non dimenticò la sua passione verso gli antichi. 

 Resta da dire qualcosa sulla poliedrica personalità di Emilio Sereni, raccontata anche dalla figlia Clara nel romanzo Il gioco dei regni, in cui è descritta la giovinezza del padre e dei suoi fratelli nella casa romana di via Cavour, in una famiglia ebrea in cui si respirava un clima di libertà e amore per la letteratura. Sereni dopo il 25 aprile fu due volte ministro nei primi governi De Gasperi e nel 1947 divenne presidente della Commissione centrale per il lavoro culturale del Pci, in un ruolo in cui non sarebbe mai venuto meno a una posizione rigidissima e totalmente asservita al partito. A dimostrazione che l’ideologia e il fanatismo possono annebbiare anche le menti più eccelse.

 Questa sua rigidità lo portò a rompere l’amicizia con Manlio Rossi–Doria, con cui condivise gli studi superiori e universitari e col quale, sospinto dal fratello Enzo, partecipava a un gruppo di lettura dei Vangeli in greco sul prato di Villa Borghese. E lo condusse a una dura incomprensione con Benedetto Croce, conosciuto negli anni degli studi universitari a Napoli e da lui considerato «politicamente, assolutamente castrato ». E, come accennato, con Banfi e col suo allievo Remo Cantoni. Con quest’ultimo ebbe una litigata furiosa nel 1949. Cantoni aveva scritto un libro su Dostoevskij e Sereni l’aveva severamente rimproverato perché elogiava non solo i romanzi giovanili dello scrittore russo, come Povera gente e Umiliati e offesi, ma anche quelli più maturi, di chiara ispirazione religiosa come I fratelli Karamazov e L’idiota.

 «Tu hai scritto un libro senza nemmeno consultarci, il che dimostra che hai una concezione infantile del partito», gli disse Sereni. E Cantoni replicò: «E tu dimostri d’avere una concezione infantile dell’uomo, che è molto peggio». Lo Ždanov italiano, così potrebbe essere definito Emilio Sereni, che auspicava il controllo del partito sul mondo della cultura e dell’editoria ed ebbe scontri anche con Giulio Einaudi. Nel 1956 poi, avallò l’invasione sovietica dell’Ungheria. Soltanto in seguito, dopo il 68 di Praga, come scrive la figlia Clara, «gli strappi alla sua rete, sommandosi, gli resero irriconoscibile il mondo» ed egli scelse di separarsi dai suoi libri: «Se li allontanò: e fu come cieco».

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