ANNIVERSARIO
SANDRO CAPPELLETTO
Gioia. Era questa la parola simbolo scelta dall’Europa per celebrare Ludwig van Beethoven in occasione dei 250 anni dalla sua nascita, a Bonn il 15 o il 16 dicembre 1770, mentre il battesimo è certamente avvenuto il 17. Immediato il richiamo all’Ode alla gioia di Friedrich Schiller i cui versi il compositore fa cantare al coro e ai solisti nel movimento finale della sua nona e ultima sinfonia: «Abbracciatevi, moltitudini! / Questo bacio al mondo intero! / Fratelli, sopra la volta stellata / deve abitare un padre che ci ama». La più alta testimonianza d’amore per l’umanità creata da un musicista, l’anelito alla fratellanza tra gli uomini, e tra loro e l’universo, un’utopia sempre necessaria, mai realizzata. Neppure gli artigli, le unghiate di questo anno così violento, riusciranno ad offuscare l’orizzonte immaginato dal compositore al quale, più che ad ogni altro, possiamo associare quel sentimento: gioia. «L’arte, soltanto lei mi ha trattenuto. Mi è sembrato impossibile lasciare questo mondo prima di avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace». Il pensiero di dover donare agli altri uomini il talento che sa di possedere, salva Beethoven nel periodo più cupo della propria esistenza, quando, a trent’anni, ha la consapevolezza che non guarirà mai dalla sordità che lo tormenta. Isolato dai rumori, dai suoni del mondo, vedeva e sentiva la musica nella propria testa, la immaginava con una libertà figlia, anche, di una privazione, di una disabilità che ha saputo trasformare in nuove conquiste. Nel momento più difficile della propria esistenza, rivela la lucida capacità di guardare dentro se stesso: «Dedalo, rinchiuso nel labirinto, ha inventato le ali che lo faranno uscire sollevandolo in alto nell’aria. Anch’io troverò queste ali». Le ali dell’immaginazione, se è vero, come ha scritto Albert Enstein, che «l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza degli uomini è limitata, l’immaginazione abbraccia l’Universo». Più volte nella sua non lunga, 57 anni, né facile esistenza Beethoven ha fatto ricorso a queste ali. Quando decide di iscriversi ad un corso dell’Università di Bonn, scoprendo la filosofia di Immanuel Kant e trascrivendo nei propri quaderni la sua celebre sentenza: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Kant!!!». Quando, contro ogni apparente convenienza, lascia la piccola città – appena 11mila abitanti allora – dove è nato, nonostante in dieci minuti a piedi potesse raggiungere la chiesa di San Martino e il palazzo del Principe, i principali luoghi di lavoro, allora, per un musicista. Voleva trasferirsi a Vienna, dove in quegli anni puntava l’ago della bussola della musica nuova, quello che noi oggi chiamiamo il periodo classico, il cui dinamismo ha saputo perfettamente riassumere: «Scaturita dall’entusiasmo, inseguo la forma con passione, la raggiungo, la vedo fuggire ancora e scomparire nel tumulto di emozioni diverse. La riafferro presto, con ardore rinnovato, non posso più separarmi da lei. Durante una rapida estasi, la sviluppo in tutte le modulazioni e, infine, trionfo sull’originario pensiero musicale. Ecco una sinfonia». Entusiasmo, forma, ardore, estasi, pensiero, sviluppo: immagini, dimensioni che vivono e sostanziano la sua musica.
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Molte opere – Egmont, Coriolano, la Marcia funebre della sinfonia Eroica, nella quale dichiara il proprio lutto per il tradimento da parte di Napoleone Bonaparte degli ideali repubblicani – esprimono l’odio per i tiranni, l’ammirazione per gli uomini che li hanno combattuti, la persuasione che la libertà di ognuno possa vivere solo nella libertà di tutti. Frequente, e con maggiore presenza negli ultimi e visionari lavori, appare l’anelito verso quella che chiama la «saggezza suprema», nella persuasione che possa realizzarsi un’armonia tra l’Universo, la natura e l’uomo. Come emerge con chiarezza nella successione dei movimenti, nella drammaturgia, della sua Sesta Sinfonia, la Sinfonia Pastorale: non una descrizione della natura, ma il racconto delle emozioni, dello stupore, del timore e della gratitudine profondi che i fenomeni cosmici suscitano in noi. L’esigenza di dialogare con il divino dilaga nel Quartetto op. 132, nel terzo movimento chiamato Canto sacro di ringraziamento offerto alla divinità da un guarito, in modo lidio. Emerge qui qualcosa che non è più dolore, non è più passione, non è più gioia di vivere, è al di sopra di tutto questo. Il richiamo alla modalità del pensiero musicale degli antichi greci – alla sua inscalfibile staticità, che non si rivolge a noi uomini, ma pretende di dialogare con gli dei – incontra le tensioni del sistema tonale, messo a punto dal pensiero musicale dell’Occidente moderno. Nell’ultima parte del movimento, l’umano e il divino, la tonalità e la modalità, prima si fronteggiano, poi si incontrano. Agli uomini, sembra dire Beethoven, è concesso perfino, fosse pure per un istante, di fondersi con l’orizzonte divino, di raggiungere la beatitudine dell’eternità. In tutta la sua opera non saprei trovare un momento più sacro e insieme più colmo di fiducia verso l’umanità. Quella fede nell’uomo che ci travolge di ebbrezza nell’aria di Leonora nel Fidelio, la sua unica opera di teatro musicale: Komm Hoffnung ( Vieni, speranza).---------------
Leonora, un personaggio formidabile, donna determinata, astuta, più che coraggiosa, innamorata, invincibile e infine trionfatrice contro ogni ingiustizia e violenza. «Vieni, speranza, non far impallidire l’ultima stella per chi è stanco. Vieni, illumina la mia meta, che è ancora così lontana, l’amore la raggiungerà».