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Incastrato da una poesia Dopo trent’anni risolto il mistero Macchi

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cronaca

LA VITTIMA: Lidia Macchi, la studentessa di 20 anni trovata morta in un bosco nel gennaio del 1987

Varese, arrestato ex compagno di liceo la violentò e poi la uccise per punirla
EMILIO RANDACIO
MILANO.
L’impronta del killer è rimasta impressa in un foglio di un’agenda sgualcita per 29 anni. Recapitata il 9 gennaio del 1987, nella cassetta delle lettere della famiglia Macchi, a Varese. In un componimento in sestine, il killer in stile forbito e con nozioni religiose raffinate, rievoca la morte di Lidia, allora 21 anni. Riporta la posizione del cadavere della giovane studentessa, gli ultimi istanti di vita esattamente come poi ricostruito, allora, dagli investigatori. «Una confessione dettagliata da parte dell’assassino», la definisce oggi il criminologo Franco Posa, consulente delle indagini che ieri mattina hanno dato un volto e un nome al killer di Lidia.
Si chiama Stefano Binda, ha 48 anni, un passato negli scout e poi in Comunione e liberazione di Varese, uno studente modello di Filosofia, fino alla laurea ma, poi, trent’anni di nulla. Non un lavoro, non un interesse, se non tanti anni con la droga a fianco, eroina soprattutto, nel ‘93 dentro e fuori da un centro di disintossicazione. Da ieri, un’ordinanza del gip Anna Giorgetti, su richiesta del procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, lo indica come l’assassino di Lidia Macchi.
Un’indagine non facile, con un esito che — scorrendo le carte — appare al momento tutt’altro che scontato. Perché l’indagine riaperta dalla procura generale milanese, ha lavorato sulle macerie di quella di 29 anni fa. E gli elementi dell’ordine d’arresto eseguito dalla polizia, si basano su fatti che in grande parte erano noti già allora, ma inspiegabilmente tralasciati. Quel fascicolo finito con un’archiviazione e nessun indagato, è andato al macero nel 2000.
Il punto di partenza è il rinvenimento di Lidia Macchi la mattina del 6 gennaio del 1987, in una zona di Varese ai piedi di un bosco, vicino a una cava abbandonata, luogo allora frequentato soprattutto da tossici. Il cadavere coperto da un cartone, giace a fianco della Fiat Panda della ragazza. Era uscita di casa la sera prima per andare a trovare un amico in ospedale, «torno per cena», li aveva rassicurati. Ma quella promessa non è stata rispettata. Lidia ha subito una violenza prima di essere colpita con «29 coltellate». Furia cieca: gola, collo, torace e gambe. Poi, la vittima «piega il capo timoroso e docile, agnello sacrificale che nulla strepita, non un lamento», ricorda quella missiva del 9 gennaio dal titolo «la morte di un’amica». Allora Binda, ascoltato insieme agli altri amici di Cl di Lidia, minimizza il rapporto con la vittima, si costituisce un alibi mai smontato fino a ieri mattina, confermato anche da un suo amico oggi sacerdote, finito nel frattempo sotto inchiesta per falsa testimonianza.
Quest’anno, il pg Manfredda ordina la riapertura delle indagini. Si risentono i testimoni, si riascolta Binda, gli viene perquisita a settembre anche la casa e lì, impilate in maniera quasi maniacale, compaiono le sue agende personali. Comprese quella del 1987, l’anno dell’omicidio. Manca la pagina — primo indizio — con cui è stata scritta la lettera alla famiglia. Ma c’è di più, secondo l’accusa. Una frase da lui stesso scritta: «Stefano è un barbaro assassino». Un perito grafologo identifica come quella di Binda la mano che ha vergato le sestine della lettera inviata alla famiglia Macchi. E in quel macabro scritto «è inconfutabile che l’autore dell’anonimo indica particolari che solo una persona presente al momento del delitto poteva conoscere».
©RIPRODUZIONE RISERVATA


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