Quantcast
Channel: Articoli interessanti
Viewing all articles
Browse latest Browse all 4971

Il Duca del rock

$
0
0

SPETTACOLI

Trasformista, androgino, fuoriclasse della musica, David Bowie è morto a New York a 69 anni. Durante la lunga carriera ha reinventato il suo personaggio lasciando il segno nel mondo dell’arte



GIUSEPPE VIDETTI

PENSAVAMO fosse il lugubre presagio di un secolo che fa scempio della bellezza, in realtà la stella nera era un muto epitaffio. O forse entrambe le cose. David Bowie, al secolo David Robert Jones, ucciso dal cancro domenica notte a New York dopo aver lottato per 18 mesi, aveva coscientemente concepito Blackstar, l’album pubblicato l’8 gennaio (giorno del 69° compleanno), come un addio definitivo, lo conferma anche lo storico produttore Tony Visconti, che sta allestendo un tribute concert alla Carnegie Hall per il 31 marzo. Sapeva che il tempo era scaduto, che gli restavano solo minuti per dire l’ultima. Chissà quanti avranno abbassato gli occhi per aver denunciato la sua incapacità di scrivere un’altra Space oddity o un’altra The Man who sold the world o un’altra Life on Mars mentre lui porgeva al mondo il De Profundis più vicino alle dissonanze berlinesi di fine anni 70 (la trilogia Low, Heroes e Lodger; «Sei tra gli Heroes. Grazie per aver aiutato a far cadere il Muro», ha twittato il ministero degli Esteri tedesco) che alle canzoni più celebri.
Tre milioni di tweet in quattro ore: non per celebrare o rimpiangere, ma per dire grazie. Dai Rolling Stones, ovvio. Da Iggy Pop, ovvio. Da Madonna, ovvio. Ma anche da Cameron e Blair, da Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, e da Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio dellaCultura.
Bowie era figlio di un’epoca dove l’arte non aveva confini e non era vittima del conformismo. Oggi, a riascoltarla, Space oddity (che nel 1969 ebbe una tiepida accoglienza, anche nella insipida versione cantata in italiano) è una sofisticata canzone da hit parade. Per Bowie fu l’inizio di quell’ossessione spaziale che avrebbe illuminato i capolavori pre e post Ziggy Stardust. Fu un geniale coup de théâtre a trasformarlo in idolo. Quando nel 1972 The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars diede una sterzata violenta al corso della pop culture, Bowie era già al quarto album - e non era più soltanto rock. Aveva sublimato il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, vampirizzato Lindsay Kemp e Andy Warhol, succhiato da Nietzsche e Orwell. Si era intossicato di Jacques Brel, Scott Walker e Anthony Newley. Prepotentemente, stava scippando lo scettro non alle mezze calzette di Top of the Pops ma al Sinatra degli anni d’oro (il mondo l’avrebbe capito dopo gli exploit cinematografici e la full immersion da crooner in Wild is the wind).
Nessun altro è stato in grado di calarsi anima e corpo in un personaggio come Bowie in Ziggy Stardust, l’alter ego che l’ha trasformato in culto, una rockstar aliena venuta a portare messaggi di speranza sulla terra e divorata dall’adorazione dei fan. Per riuscirci mise in atto tutte le strategie di un secolo di show business. In quel debutto al Rainbow Theatre di Londra nel ’72, Bowie era già posseduto da Ziggy, un rocker asessuato eppure sensualissimo, Judy Garland e Liberace fusi in un nuovo, immaginifico, rivoluzionario divo interstellare. Non si risparmiò: la cocaina per mantenere il controllo (complice l’allora moglie Angie, che oggi, dopo aver appreso la notizia ha preferito restare nella casa del Grande Fratello made in UK), la mimica straordinaria, l’abilità del trasformista, l’ostentazione di una sfacciata bisessualità – era il delirio in sala quando s’inginocchiava davanti al chitarrista Mick Ronson e mimava un rapporto orale. Se non fosse stato il genio che era, non ne sarebbe più uscito; Ziggy – che ancora non la finisce di essere citato e riciclato in servizi fotografici e collezioni di moda: il make-up, il taglio, il pel di carota, le tutine spaziali - sarebbe diventata la sua maschera di ferro, lo avrebbe condannato alla malinconica routine dei revival show. Invece dopo un anno, il mondo ai suoi piedi, mandò alla ghigliottina la sua creatura con un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra filmato da D.A. Pennebaker (autore del leggendario Don’t look back di Dylan). Prima di cantare Rock’n’roll suicide, bistrato, stravolto, emaciato, sputò nel microfono: «Non solo è l’ultimo concerto del tour, ma l’ultimo in assoluto che faremo ». Si scatenò il pandemonio, i fan non avevano capito che Ziggy si stava suicidando per far rinascere Bowie. Fu un anno di gloria e distruzione che gli avrebbe garantito a vita il privilegio che aveva invidiato a Jackson Pollock e a Bob Dylan, libertà anche a costo della follia. Da quel momento, niente più confini: il piacere del déjà-vu (l’album di cover Pin- ups) e l’edonismo esasperato ( Aladdin sane), imagerie postbelliche ( Diamond dogs) e escursioni nella black music (Young Americans), cinema ( Gigolò, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’uomo che cadde sulla terra, Furyo, Labyrinth, Basquiat) e pittura, avanguardia con Brian Eno (che ha ricevuto l’ultima mail da Bowie una settimana fa: «Divertente e surreale come sempre. Grazie per i bei vecchi tempi, rimarranno intatti, scriveva. Si firmava Dawn (alba). Solo ieri ho capito che era un addio ») e clamorose (auto)celebrazioni (Live Aid, Freddie Mercury Tribute), duetti memorabili (con Bing Crosby, Mick Jagger, Annie Lennox, Tina Turner, Iggy Pop, Queen) e progetti paralleli (Tin Machine), collaborazioni insolite (John Lennon e Luther Vandross, ma anche Moby e Arcade Fire) e fulminanti apparizioni nei talk show (impressionante quella in cui esangue e visibilmente “cocainato” tiene testa alle sciocche domande di Dick Cavett).
Dopo la separazione da Angie, dalla quale aveva avuto il figlio Duncan Jones, il regista 44enne di Moon che ieri ha dato la notizia del- la scomparsa, Bowie aveva sposato a Firenze la top model Iman (la figlia Alexandria Zahra ha quindici anni) e si era trasferito a New York. Era chiaro, dalle foto rubate dai paparazzi, che non stava invecchiando come una glam-star, e neanche come il Major Tom prepensionato di Ashes to ashes.
Avrebbe potuto dare ancora molto, come Jagger o Mc Cartney, invece se n’è andato dopo aver realizzato il sogno di un musical Off-Broadway ( Lazarus,tutt’ora in scena). Nella fretta di scrivere la parola «terrore» nel suo testamento sonoro, non ha fatto in tempo a produrre il tanto desiderato Ziggy Stardustteatrale di cui ci parlò nell’ultima intervista. A chi, uno per uno, è stato toccato dalla sua grazia, non resta che farsi sussurrare per l’ultima volta le parole di Jareth (il re dei Goblin che impersonava in Labyrinth): «Ho sovvertito l’ordine del tempo, ho messo sottosopra il mondo intero e tutto questo l’ho fatto per te. Non ti sembra abbastanza generoso?». Oppure, piangere.

Viewing all articles
Browse latest Browse all 4971

Trending Articles