Kenya.
Primo giorno di lezione nell’università, nove mesi dopo il massacro di 148 giovani compiuto dai terroristi somali di Al Shabab
PIETRO DEL RE
DAL NOSTRO INVIATO
GARISSA.
Un piccolo sbaffo di sangue rappreso sul linoleum di un’aula è la sola, quasi impercettibile traccia dell’eccidio di nove mesi fa. Per il resto, i buchi scavati dalle pallottole dei kalashnikov sono stati tutti stuccati, i vetri infranti sostituiti e le pareti ridipinte.
Al dormitorio dell’Università di Garissa, dove il 2 aprile scorso gli Shabab somali hanno massacrato 148 studenti, anticipando con la loro efferata modalità operativa quello che altri islamisti hanno compiuto il 13 novembre al teatro Bataclan di Parigi, è stato perfino cambiato nome. Non si chiama più “Elgon” bensì “Ewaso Nyiro”. «Ma quello di cui vado più fiero è il nostro nuovo sistema di sicurezza perché adesso abbiamo una stazione di polizia forte di 25 agenti all’interno del campus stesso», spiega Ahmed Osman Warfa, decano del Garissa University College che ieri ha finalmente riaperto le sue porte. «Buona parte dell’economia della città gravita attorno alla nostra università, che è la sola in tutta la regione del Kenya orientale. Il fatto che tutto ricominci è per noi tutti un evento altamente simbolico».
Alle 8 del mattino, senza cerimonie né discorsi commemorativi sono dunque riprese le lezioni, sia pure con più poliziotti che studenti, e più giornalisti locali che poliziotti. Il termometro già sfiorava i 36 gradi, perciò il primo e unico corso della giornata, “ business management”, si è tenuto in un’aula con le finestre spalancate nella speranza di creare un refolo di corrente.
Poco prima che cominciasse la lezione, per rassicurare i pochi studenti presenti e tutto il Paese attraverso le telecamere delle tv, pattuglie di agenti armati fino ai denti hanno cominciato a perlustrare a bordo di vecchie jeep l’intera facoltà, dai vialetti che separano le aule ancora vuote fino ai campi sportivi. È lecito chiedersi se le stesse ronde si ripeteranno anche la settimana prossima, senza i cronisti arrivati da Nairobi?
Quando chiediamo al decano Warfa se verrà posta una lapide per ricordare le vittime, lui ci guarda come se gli avessimo pestato un piede. Lo stesso fanno un paio di professori giunti a festeggiare la facoltà rinnovata.
«Qui tutti si comportano come se dovessimo cancellare per sempre quanto è accaduto il 2 aprile», si lamenta Safia Noov, 25 anni, studentessa di Economia, scampata alla morte perché vive con la sua famiglia a Garissa, fuori dal campus, e quindi, pur essendo iscritta all’università, alle 5 e 30 di quella mattina, quando gli Shabab hanno iniziato a trucidare i suoi compagni lei era nel letto di casa sua.
«No, non ho paura ma è molto doloroso ritornare su questi banchi. Quel giorno ho perduto molti amici e molte amiche che non voglio dimenticare, perché se l’università è diventata più sicura di prima lo dobbiamo soprattutto al sacrificio degli studenti uccisi», aggiunge la ragazza.
In molti temevano che l’Università di Garissa rimanesse chiusa per sempre. Come altri attacchi perpetrati nel Kenya orientale, non lontano dal confine con la Somalia islamista, anche quello del 2 aprile era mirato a far fuggire studenti e insegnanti. Proprio come i jihadisti di Boko Haram, anche gli Shabab si oppongono ferocemente alla diffusione della cultura occidentale.
«Loro tollerano solo le madrasse, le scuole coraniche», dice ancora Safia, che accetta di accompagnarci al dormitorio “Ewaso Nyiro” appena riaperto, nel cui atrio fu scattata l’immagine simbolo della mattanza, che ricorda appunto quella del teatro parigino, con decine di corpi giustiziati, gli uni accanto agli altri.
Al primo piano, le pareti delle stanze dove alloggiavano gli studenti sono state ridipinte di turchese. «Qui è rimasta nascosta per più di ventiquattr’ore una mia cara amica, che così è sopravvissuta al massacro», dice Safia aprendo la porta di un armadio a muro. «Nella stanza accanto è morta invece un’altra mia cara compagna, che s’era rifiutata di seguire gli Shabab al piano terra». Una volta penetrati nel dormitorio, i jihadisti hanno infatti ingannato gli studenti dicendo che li avrebbero risparmiati solo se fossero tutti scesi nell’atrio. «Ma lì, contro i miei compagni, si sono accaniti con una tale ferocia, sparando così tante pallottole, che è stato quasi impossibile identificarli».
Prima dell’attacco, a Garissa si contavano quasi 1.000 studenti: gli 850 sopravvissuti sono stati quasi tutti trasferiti in altre università kenyane. Quelli che ricominciano a studiare qui sono in tutto una sessantina, e lo fanno sia perché, come Safia, non possono lasciare la famiglia, sia perché hanno già un impiego che perderebbero trasferendosi altrove. «A settembre si spera che arrivino nuove le nuove leve, ma non credo che saranno più di 200. Perché lo spettro della morte ancora aleggia su questo campus maledetto».
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Stuccati i buchi scavati dalle pallottole, ridipinte le pareti insanguinate. E c’è un presidio di polizia
In aula
I SOPRAVVISSUTI
La prima lezione all’università di Garissa, nove mesi dopo la strage: il professor Said Omar e gli studenti del terzo anno Sotto, Safia Noov, 25 anni: studia Economia ed è scampata al massacro perché il 2 aprile scorso si trovava a casa con i familiari