COMMENTI
Il suo manifesto contro la democrazia liberale
di Gad Lerner
Il vero e proprio manifesto contro la democrazia liberale che Vladimir Putin ha scelto, non a caso, di affidare alle pagine del Financial Times (pubblicato anche da Repubblica ) è un documento storico che ben ci spiega come il presidente russo sia riuscito a diventare il guru di tutti gli aspiranti leader sovranisti europei.
Dubito però che lo scopo principale di Putin fosse quello di ingraziarsi i leghisti e gli altri partiti di estrema destra del Vecchio continente, a lui già devoti.
Attraverso il direttore e il corrispondente da Mosca del Financial Times , Lionel Barber ed Henry Foy, l’uomo forte del Cremlino sapeva di rivolgersi direttamente alla comunità finanziaria, che nella City londinese ha una delle sue capitali planetarie.
A loro, ai businessmen che muovono le ricchezze della finanza da un continente all’altro, Putin destina un messaggio insidioso ma pieno di attrattive che, ridotto all’osso, suona così: «Seguite l’esempio di Trump e della Brexit, liberate il vostro capitalismo dagli inutili orpelli del liberalismo e del multiculturalismo, e vedrete che faremo ottimi affari insieme».
Detentore di un potere quasi totalitario, generato dall’accaparramento oligarchico delle risorse ereditate dalle ceneri del socialismo, Putin si propone come modello di un capitalismo che può e vuole fare a meno della democrazia così come l’abbiamo intesa in Occidente. Fondata, cioè, non solo sul suffragio universale, ma anche sulla separazione dei poteri e sulla tutela dei diritti delle minoranze.
Una dittatura della maggioranza che si riconosce nel capo, il quale a sua volta garantisce con pugno di ferro gli interessi del sistema oligarchico, mascherati da patriottismo.
Non è un caso che si piacessero tanto, Putin e Berlusconi, già in un’era politica precedente. Oggi, in un mondo «più frammentato» e «meno prevedibile», è il "non politico" Trump che viene riconosciuto «persona di talento». Lui forse esagera col muro tra Messico e Stati Uniti, «ma almeno sta cercando una soluzione». Mentre la cancelliera tedesca Merkel «ha commesso un errore capitale» nel 2015, quando ha aperto le frontiere ai fuggiaschi dalle guerre mediorientali.
Non c’è da stupirsi se ora il piccolo imitatore nostrano Salvini si affretta a promettere 243 chilometri di filo spinato tra Italia e Slovenia, mai eretti neanche quando lì correva la cortina di ferro. Di Putin, agli imitatori piace molto il linguaggio minaccioso. Come quando, interpellato a proposito della morte per avvelenamento col gas nervino dell’ex agente segreto Sergej Skripal, pur negando ogni addebito, ci tiene ad aggiungere: «Il tradimento è il crimine più grave possibile e i traditori devono essere puniti. È il crimine più spregevole che si possa immaginare». Un messaggio inequivocabile, per chi deve intenderlo: l’uomo forte, lo dice la parola stessa, non ha paura di usare la forza. E, se necessario, calpesterà le regole.
Altro che Pietro il Grande, sovrano illuminista e filo-occidentale, cui per vanità Putin dichiara di ispirarsi. Semmai è lo stalinismo a fargli da modello. Non solo con l’abuso dei metodi polizieschi e la caccia ai dissidenti, ma anche con il perseguimento di quel «socialismo in un Paese solo» che Putin ricicla nell’ossessione nazionalistica e militarista a difesa di un capitalismo oligarchico russo perennemente in crisi.
Tale modello alternativo, che Putin oggi propone alla comunità internazionale degli affari, è il frutto dei suoi tentativi di resistenza alle insidie del libero mercato globale, nel quale il suo Paese decade dal rango di grande potenza.
Questo è il punto decisivo del manifesto ideologico di Putin. Leggiamolo con attenzione: «Le élites al potere si sono allontanate dal popolo», vittima di una globalizzazione della quale si sono avvantaggiati soprattutto i cinesi; e scosso nelle sue identità tradizionali dai flussi migratori e dall’eccessiva libertà sessuale. Qui, a proposito degli immigrati, il discorso si fa caricaturale, grottesco, propagandistico. Sembra quasi di sentir parlare un Borghezio. Testuale: «L’idea liberale presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla. I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati». Niente meno. E subito dopo aver formulato questo atto d’accusa inverosimile a carico dei governi occidentali, come immediata conseguenza Putin arriva a sentenziare: «Quindi, l’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione».
Fino ad oggi, una simile liquidazione teorica del liberalismo politico, nel mondo contemporaneo, era giunta solo da Xi Jinping e dalla superpotenza cinese che però – a differenza dell’autoritarismo putiniano – suole presentarsi ancora come sistema socialista. In Europa era stato un leader tutto sommato minore, l’ungherese Victor Orbán, a dichiararsi fautore di una «democrazia illiberale». Putin rilancia alla grande. E così facendo conquista i cuori dei governanti nostrani, che ancora non hanno osato dichiarare obsolete le regole della Costituzione della Repubblica cui hanno giurato fedeltà, ma già fanno a gara nel dichiarare nemico del popolo chi sostiene politiche d’accoglienza e di economia aperta.
Oggi probabilmente a Salvini non conviene esternare la sua ammirazione per Putin fino al punto di decretare il de prufundis della democrazia liberale. Si accontenterà di giocare di sponda fra Trump e Putin la sua partita antieuropea, continuando a delegare a leghisti di secondo rango, come Gianluca Savoini, le strette connessioni culturali e finanziarie del suo partito con Mosca. Ma non dimentichiamo che la spregiudicatezza del nostro vicepremier, nel continuo inseguimento di modelli politici costruiti su misura per l’uomo forte, cinque anni fa lo aveva portato fino in Corea del Nord, in un indimenticabile viaggio al fianco di Antonio Razzi.
Tornato da Pyongyang, Salvini non aveva mancato di esprimere ammirazione per lo «splendido senso di comunità» da lui percepito in quella «specie di Svizzera». Dopo la stretta di mano fra Trump e Kim Jong-un, chissà che non voglia fare il bis.
Pensavamo, nel 2014, che si trattasse delle improvvisazioni di un dilettante allo sbaraglio. Ma ora che Salvini guida il partito di maggioranza relativa, e ora che Vladimir Putin, cioè l’uomo cui nelle sue autobiografie egli tributa l’omaggio del discepolo al maestro, teorizza la morte dell’idea liberale, sarà meglio prenderli sul serio. Non è affatto garantita, nel nostro futuro, la persistenza delle garanzie di un sistema democratico. Il capitalismo, all’occorrenza, può farne a meno. Ce lo dice l’incarnazione contemporanea del modello oligarchico.