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Gli spettri neri del caos

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Il leader della Lega si è spinto nel mare oscuro di un’ultradestra che nel dopoguerra non avevamo conosciuto, e che fa paura
Cosa fare di tutto quel nero? La domanda pende da domenica sera davanti a Salvini, il vincitore del voto europeo in Italia, ma in realtà riguarda tutti noi.

Per vincere, il leader della Lega non si è accontentato di impiantare il suo partito al centro e al Sud, chiudendo per sempre l’avventura bossiana dei miti padani e della secessione nordista, e non si è neppure limitato a resuscitare il nazionalismo sovranista. Tutto questo poteva essere fatto restando nei limiti di una nuova rappresentazione della destra, pronta a forzare i confini dell’area conservatrice, ma senza fuoriuscirne completamente.

Invece Salvini ha superato furiosamente le colonne d’Ercole della politica italiana e occidentale, spingendosi nel mare oscuro di un’ultradestra che nel dopoguerra non avevamo mai conosciuto: alleandosi a forze estreme e maledette dalla politica tradizionale, gemellandosi col postfascismo di Marine Le Pen, flirtando con Orbán, radunando razzismi internazionali e xenofobie continentali, nella convinzione di guidare questa massa d’urto politica e ideologica contro Bruxelles, per far saltare in prima persona gli equilibri dell’Europa.

Attorno a lui, fuori dall’Italia, l’Europa ha tenuto, nonostante tutto. Chiamati a pronunciarsi in una sorta di referendum che assomigliava a un giudizio universale, i cittadini di 28 Paesi hanno detto no alla scorciatoia sovranista mentre dicevano sì all’Unione europea, il progetto più ambizioso degli ultimi settant’anni, per creare un nuovo ordine democratico nel continente. La presa del palazzo di Bruxelles dunque è rimandata. E Salvini si trova a fare i conti, dopo il voto, con un fortissimo successo, ma di portata più nazionale che europea. In una mano ha un consenso strabiliante, per un partito che pochi anni fa era al limite della sopravvivenza. Nell’altra mano ha gli spettri del caos nero che aveva suscitato e raccolto per indirizzarli contro Strasburgo, e che invece ora dovrà far ballare sulla scena italiana al ritmo di una musica tutta ancora da inventare.

La sfasatura tra i nuovi risultati europei e il vecchio (si fa per dire) parlamento italiano, consente di rinviare il fixing all’interno del governo. Ma è chiaro, come ha spiegato Stefano Folli, che la maggioranza non può far finta di niente. Ci troviamo con un partito — i Cinque Stelle — in drammatica crisi d’identità, che per un anno intero ha sottoscritto non solo la politica, ma l’ideologismo securitario di Salvini e persino quelle posture feroci contro i migranti che non aumentano certo la sicurezza degli italiani, mentre legittimano invece la xenofobia: salvo poi negli ultimi due mesi di campagna elettorale tentare una rincorsa mimetica su temi di sinistra, senza convinzione e senza credibilità, finendo per confermare quella somma zero identitaria che rischia di essere la sua cifra e la condanna di Di Maio.

E ci troviamo, dall’altra parte, con un partito — la Lega — che ha una sovrabbondanza d’identità, un segno talmente marcato di ultradestra che diventa difficile spenderlo sul mercato politico di un Paese malandato ma pur sempre occidentale, sbandato e tuttavia fondatore della Ue, disponibile negli ultimi anni a qualsiasi avventura e comunque geograficamente più vicino a Francia e Germania che al gruppo di Visegrad.

O Salvini forza questi limiti, proponendosi come capo di un governo di destra estrema, con la Meloni come testimonianza dell’eredità post-fascista, e magari Berlusconi alleato in cattività, realizzando una forte anomalia nei Paesi occidentali, come se trapiantasse l’Italia nell’Europa di mezzo. Oppure rimanda l’appuntamento, giocando la partita postelettorale tutta dentro gli attuali equilibri di governo, che gli garantiscono un lucro continuo: naturalmente con un reset non tanto dei ministeri e degli incarichi, ma della condizione psicologica su cui si regge l’alleanza, inclinandola ancor più a destra, in suo favore, scontando le nevrosi che cortocircuiteranno il mondo grillino.

In entrambi i casi, il leader della Lega ha un problema per così dire di egemonia culturale. Con quale cultura, dunque con quale profilo politico, gestirà il successo? Come trasformerà la cosa nera che ha suscitato in uno strumento di governo? Un problema per lui, perché un sistema come l’Italia nonostante tutto non si governa dal bordo estremo della democrazia. E un problema per noi tutti, costretti a vivere nella rappresentazione di una continua emergenza, con il Paese chiuso su se stesso, senza sviluppo, senza crescita e senza ambizioni, alieno nel concerto occidentale.

Il razzismo che si fa governo, ammiccando alle risorgenze fasciste sparse, portandoci fuori dall’Occidente con le xenofobie ricorrenti e l’ideologia che ritorna prepotente, non può essere il destino italiano. Su questo pericolo, gli alleati di oggi e di domani, Cinque Stelle e Forza Italia, si giocano in realtà la loro sopravvivenza e il loro futuro, se fossero consapevoli che la prossima Repubblica non può tingersi interamente di nero. Per la sinistra, che ha scoperto di essere viva, questa consapevolezza è un obbligo. Non ha i numeri necessari per un’alternativa, ma ha quelli sufficienti per l’opposizione: custodendo un’altra idea dell’Italia, a disposizione degli uomini e delle donne di buona volontà.


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